Dalla Bolivia alla Colombia, così il voto cambia l’America Latina

Figlio della Colombia povera e contadina. Ex attivista (ma senza impugnare le armi) del movimento di guerriglia M-19. Economista. Ambientalista. Sindaco di Bogotà. Parlamentare e tre volte candidato alla presidenza. Per Gustavo Petro, 62 anni, biografia personale e politica da personaggio di Garcia Marquez, la terza volta è stata quella buona, quella che lo ha fatto diventare il primo presidente di sinistra nella storia della Colombia.

Una vittoria tanto più significativa non solo perché Petro ha ottenuto il più alto numero di voti mai assegnato in un’elezione presidenziale, ma perché anche il rivale, il conservatore Rodolfo Hernandez, pur restando legato ai poteri tradizionalmente dominanti nel Paese, si presentava come candidato anti-sistema.

Nel suo discorso della vittoria, Petro ha ovviamente parlato di giustizia sociale, lotta alla povertà, fine delle discriminazioni e delle persecuzioni, ha annunciato un piano di riforme sociali e fiscali e di lotta alla violenza, cercando di costruire una sorta di continuità con le proteste che nella primavera scorsa avevano sollevato il Paese (560 comuni coinvolti, un centinaio di morti dopo l’intervento delle truppe anti-sommossa) contro un inasprimento fiscale considerato inaccettabile da una popolazione già stremata dal Covid e dalla crisi economica. Per Petro sarà una battaglia durissima. L’ha cominciata, però, lanciando un forte messaggio di inclusione: Marcia Franquez, candidata con lui, sarà la prima donna di colore ad arrivare alla vice-presidenza.

L’impatto della presidenza Petro sulla situazione nazionale colombiana andrà valutato nel tempo. L’eco della sua vittoria, però, già si riverbera sull’intero continente latino-americano, che negli ultimi anni ha visto un prepotente ritorno di quello che potremmo generalmente (e forse anche un po’ genericamente) chiamare un fronte progressista. Petro, infatti, è solo l’ultimo di una lista ideale che prima di lui ha visto arrivare al potere, nell’ordine, Gabriel Boric in Cile (marzo 2022, il più giovane presidente nella storia del Paese), Pedro Castillo in Perù (2021), Luis Arce in Bolivia (2020), e per certi versi anche Alberto Fernandez in Argentina nel gennaio 2022. Risultati che, per alcuni, possono essere paragonati alla «marea rossa» che, nei primi anni Duemila, consegnò in pratica l’intera America Latina alle sinistre e, anche, al populismo dei vari Chavez e Maduro. Un’onda ritiratasi un decennio più tardi con qualche risultato positivo ma soprattutto tra proteste, recriminazioni e ipotesi di dittatura.

Perché il pendolo destra-sinistra arrivi compiutamente all’estremo opposto della sua corsa, però, manca il tassello forse più importante: il Brasile. In ottobre il gigante sudamericano andrà a votare e la sfida è già ristretta a Jair Bolsonaro, il più che controverso presidente in carica, e il redivivo Luiz Lula, che presidente lo fu tra il 2003 e il 2011, prima di essere travolto da accuse di corruzione da cui è stato infine riabilitato. Lula viene dato per favorito da quasi tutti i sondaggi ma al voto mancano ancora molti mesi e Bolsonaro, forte dei suoi legami con gli ambienti giudiziari e militari, è un personaggio da prendere con le molle. Certo che se Lula dovesse tornare in sella e allineare il Brasile alla marea, forse non più rossa ma comunque rosa intenso, il continente sudamericano tornerebbe sotto i riflettori. E con la crisi mondiale in atto, che porta con sé uno scontro epocale tra le potenze per la suddivisione delle sfere di influenza, potrebbe diventare una condizione interessante ma scomoda.

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