Dal cieco ai malati
Cronache di naufragi

Secondo la vulgata, i migranti che sbarcano sulle coste italiane sono giovani in carne («palestrati» nel gergo ricorrente sui social) e addirittura muniti di telefonino. Non sarebbero quindi persone bisognose d’aiuto. Ma non basta uno scatto fotografico o un’immagine televisiva per definire un fenomeno complesso e variegato. Vanno lette invece le cronache dei giornali. Certamente ci sono giovani in salute e con lo smartphone, «tarocco» cinese acquistabile nei mercati africani con pochi soldi, soprattutto se usato. Ma c’è molto altro.

Nei giorni scorsi è stato diffuso un video drammatico della Guardia costiera italiana: riprendeva l’azione di salvataggio di 170 migranti. Erano su un barcone di 10 metri partito dalla Libia e ribaltatosi a un miglio da Lampedusa. Si vedono lanci di salvagenti ai naufraghi ma soprattutto la nuotata veloce di un soccorritore, Salvatore, 20 anni, in un mare in burrasca e gelido. Aveva sentito un vagito e si era diretto verso quel pianto: così ha salvato Faven, come ha ricostruito «Avvenire», una bimba eritrea che compie un anno questa settimana. Era nelle braccia del padre, in affanno perché ancora privo di salvagente.

La piccola, in ipotermia, è stata portata in sicurezza su una nave. Anche il papà e la mamma si sono salvati: lei ha riabbracciato la figlioletta qualche ora dopo. L’avevano curata nell’ambulatorio di Lampedusa, tenuta a testa in giù per fare uscire dalla bocca l’acqua salata ingurgitata in mare. In quell’ambulatorio vengono lenite le ferite classiche dei migranti, tra le quali soprattutto le bruciature della pelle generate dal mix di carburante delle imbarcazioni e acqua salata. O gli effetti delle torture patite nei lager libici. Nel naufragio sono morte 21 persone (soprattutto donne) che vanno ad aggiungersi alle 1.136 che hanno perso la vita nel Mediterraneo da gennaio. Due sorelline sono rimaste orfane della mamma e il padre non era sulla barca.

Ma c’è un’altra storia che merita di essere raccontata in questa ennesima tragedia del mare: il salvataggio di un trentenne cieco. Non afferrava le cime che gli venivano lanciate né il salvagente, spariva tra le onde e riemergeva. Lo soccorreva da una motovedetta della Guardia costiera, Pietro, 31 anni. Direttore di macchina, non dovrebbe calarsi in mare. E invece di fronte a quell’uomo in balìa della burrasca si è tuffato con addosso la divisa operativa, lo ha raggiunto e salvato, come ha raccontato «La Stampa». L’immigrato, essendo ipovedente, non intercettava cime e salvagente.

Le cronache hanno raccontato anche la storia di Fakher, 28 anni, tunisino, morto l’ottobre scorso nel naufragio di una barca con a bordo 52 persone ribaltatasi al largo di Lampedusa. Era affetto da un tumore grave e le cure in Tunisia non avevano dato l’esito sperato. Quindi la decisione di tentare la via del mare per arrivare in Italia e farsi ricoverare in un ospedale che lo salvasse dal cancro. È invece morto inghiottito dal Mediterraneo.

È del marzo 2018 una vicenda analoga ma con un finale diverso. Tre fratelli scappati dalla Libia su un gommone, per cercare di raggiungere l’Europa e poter curare il mezzano, Allah, 14 anni, malato di leucemia, sono stati salvati dalla nave di una ong. Sono almeno 18 mila i migranti minori non accompagnati presenti in Italia: oltre 1.200 hanno meno di 14 anni.

Le barche sono piene di storie una diversa dall’altra. Se poi allargassimo lo sguardo oltre il Mare Nostrum, scopriremmo altre vicende dolorose e incredibili: come quella emersa nell’agosto 2015 di un afghano di 18 anni in fuga dalla guerra che ha portato con sé la persona più preziosa che gli era rimasta: la nonna, in carrozzella. L’ha spinta per 4 mila km, dall’Afghanistan all’Ungheria, un’odissea durata oltre due anni con l’obiettivo di raggiungere attraverso la rotta balcanica l’Europa centrale e settentrionale. Anche gli oppositori più estremi sti dell’immigrazione di fronte a storie così dovrebbero provare almeno un po’ di pietà. Non sono queste persone che dobbiamo temere. Sono altri i pericoli. In Libia siamo in guerra: ce l’ha dichiarata il generale Khalifa Haftar, che punta alla conquista di Tripoli e ad abbattere il governo di Fayez al-Sarraj, sostenuto anche dall’Italia. Nei giorni scorsi le sue truppe hanno abbattuto un nostro drone del valore di 4 milioni. E tengono quotidianamente sotto scacco a suon di bombe 300 soldati italiani di stanza all’ospedale militare di Misurata. Siamo in guerra e non lo sappiamo perché la nostra classe politica non ne ha contezza. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è impegnato a governare il conflitto nei 5 Stelle e non quello letterale al di là del Mediterraneo. Non è andato al G20 in Giappone perché era in Sicilia con i pentastellati. L’Onu ha buon gioco nell’accusarci di «sforzi diplomatici minati dalla mancanza di strategia politica». C’è di che preoccuparsi.

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