Culle vuote e industria

ITALIA. La popolazione italiana è ancora in calo. Nel 2022 il numero dei residenti nel nostro Paese, ha certificato l’Istat, è sceso sotto la soglia dei 59 milioni di abitanti, arrivando per la precisione a 58.850.717 individui.

Dal 2019, in soli tre anni, la nostra penisola – complice certo l’eccesso di mortalità causato dalla pandemia da Covid-19 – ha perso quasi un milione di abitanti, come se fosse scomparsa nel nulla una città grande come Torino o Napoli. Considerati questi andamenti, si potrebbe dire – un po’ cinicamente, magari – che la «crisi demografica» non è più un evento «notiziabile», perlomeno perché ha perso i caratteri di «novità» che solitamente si attribuiscono alla notizia, giornalisticamente intesa.

Nel 2022 le nascite hanno raggiunto il nuovo record minimo, 393mila circa, ben distante dal picco toccato negli ultimi 20 anni nel 2008 con quasi 577mila nascite, a fronte di un elevato numero di decessi, circa 713mila. Quello cui stiamo assistendo, dunque, è il naturale – per quanto violento - colpo di coda di un «malessere demografico», per citare lo studioso e Accademico dei Lincei Antonio Golini, che affonda le sue radici negli anni ’70 del secolo scorso. Negli anni ’90, il contributo dell’immigrazione ha parzialmente nascosto il collasso demografico in corso, ma oramai nemmeno l’afflusso di nuovi residenti dall’estero – nonostante alcune semplificazioni che riaffiorano di tanto in tanto nel dibattito pubblico – può compensare la bassissima natalità dei residenti e il loro intenso invecchiamento.

D’altronde, come è noto tra gli studiosi più seri degli andamenti della popolazione, i nuovi arrivati tendono ad adeguarsi in maniera piuttosto rapida alle abitudini riproduttive degli autoctoni. Anche gli immigrati, infatti, si confrontano con tutte le difficoltà, lavorative e sociali, che frenano le giovani coppie dall’idea di concepire un figlio (o un figlio in più, per arrivare alla fatidica «soglia di sostituzione» di 2,1 figli), e allo stesso tempo sono anch’essi lentamente influenzati da quella miscela di «cultura del narcisismo» (Christopher Lasch) e di sfiducia nel futuro che tanta parte gioca nell’attuale situazione.

Se le statistiche inducono dunque al pessimismo per quel che riguarda la possibilità di un andamento sostenibile della popolazione, è però indubbio che negli ultimi tempi qualche segnale di maggiore consapevolezza sia emerso, perfino in un Paese proverbialmente impegnato in dibattiti dalla «veduta corta». Nell’attuale governo Meloni, per esempio, è nato un ministero per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità. Certo la necessità di approvare una Legge di Stabilità in tempi stretti, e con pochi margini di bilancio, finora non ha consentito chissà quale intervento radicale per favorire le nascite. Né avrebbe senso attendersi che siano i soli poteri (o soldi) pubblici a invertire la rotta demografica. Fanno ben sperare, in tal senso, iniziative «dal basso» come quelle sempre più frequenti di sindacati e imprese, in prima linea nell’affrontare le conseguenze economiche dell’andamento demografico.

Fra queste iniziative, per esempio, il «Patto per l’industria italiana» promosso dalla Cisl, insieme con esponenti dell’accademia, di Confindustria e di Confcooperative, in cui fra le priorità figura al primo posto «investire nelle persone». Con un richiamo esplicito a impegnarsi per «ridurre il gap di competenze dei lavoratori e delle lavoratrici», intervenendo su scuola, università e formazione professionale, e «progettando una politica demografica e dell’immigrazione non emergenziale». Una presa di posizione che è il primo e ineludibile passo per intraprendere scelte concrete di rottura col recente passato.

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