Csm, bacchettata
di Mattarella

Un intervento atteso, soprattutto chiaro e forte: netto. Le parole del presidente Mattarella al plenum del Consiglio superiore della magistratura resteranno negli annali dell’organo di autogoverno dei magistrati, e organo a rilevanza costituzionale, oltre che nella coscienza del Paese. Frasi anche sofferte, in quanto vengono dal costituzionalista che, dalla bufera che ha travolto il Csm, vede emergere «un quadro sconcertante e inaccettabile».

La denuncia è accompagnata da una preoccupazione in più e da una prospettiva in positivo. Da una lato quanto avvenuto «ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio, ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine giudiziario».

Dall’altro «la reazione del Consiglio ha rappresentato il primo passo per il recupero dell’autorevolezza e della credibilità che occorre sapere restituire alla magistratura». Si riafferma lo stile proprio di Mattarella, composto nella riservatezza dello studioso e nella determinazione del dettato costituzionale. Lo abbiamo visto in più passaggi delicati: dalla vicenda dell’ex ministro Savona alla Legge di stabilità, ha accompagnato il Paese a uscire da serie difficoltà in un contesto che a taluni appare di recessione democratica. In un’Italia senza memoria, qualche autocritica potrebbero porsela anche i pifferai del caos alla Di Maio, che intendevano mettere in stato d’accusa Mattarella, espressione peraltro di una classe dirigente non più riprodotta. Ecco un percorso di lettura valido un po’ per tutti: l’autocritica, una riflessione sul proprio agire. Perché nello scandalo che ha investito il Csm il rischio è duplice. Il primo, consolatorio e un po’ ipocrita, è ridurre il tutto all’intreccio opaco fra le correnti del Csm e il mondo politico, alle deviazioni delle «poche mele marce», mentre il sistema viceversa appare frequentato da tempo, cioè una deviazione strutturata delle funzioni dell’organo rispetto ai fini istituzionali. Il secondo, da giustizia sommaria, è fare di ogni erba un fascio, là dove serve ripetere un’ovvietà: la stragrande maggioranza dei magistrati è integerrima e compie il proprio dovere con scrupolo. Ma questa volta la «questione morale», termine da usare con molta cautela perché spesso ha un effetto boomerang, riemerge dove meno te l’aspettavi. Se la cornice parla di logiche spartitorie e non trasparenti, di ansie eccessive di potere, l’universo togato vive sulla propria pelle i guasti che altri mondi hanno già subito, a cominciare da quello politico. Il rapporto con la politica, ancorché necessario, era ed è malato da tempo e l’impressione è che non si sia ancora usciti dalle coordinate imposte dal dopo-Tangentopoli. Il frastuono, poi, del circo mediatico-giudiziario funziona da ghigliottina per tutti. La capacità di distinguere viene meno e pure il rispetto per qualsiasi persona. Il resto lo fanno un montante clima manettaro e il recente quadro normativo, in taluni casi illiberale se non autoritario. La politica usa quella che ancora non è una verità giudiziaria come arma da impugnare contro l’avversario del momento e intanto, oggi più di ieri, s’è smarrito il concetto di etica pubblica. L’autonomia dei magistrati deve convivere con la responsabilità: fiducia dei cittadini e credibilità delle toghe vanno di pari passo.

Una fonte autorevole qual è il procuratore di Milano, Greco, ha attribuito, come metafora, l’inclinazione a riunirsi in camarille ai magistrati che vivono nelle retrovie della burocrazia romana. Un approccio che non appartiene ai magistrati del Nord. A noi, tuttavia, è parso più convincente il procuratore generale di Torino, Saluzzo, quando ha detto che se il politico viene messo a tavola si siede: la maggiore responsabilità è di chi gli apre il varco, cioè dei magistrati. Il punto è ridefinire alla luce del sole le reciproche relazioni. Le correnti del Csm, nate per assegnare al pluralismo delle toghe l’elaborazione culturale e giuridica, sono finite intrappolate nella degenerazione di logiche associative e di appartenenza simil-partitica, oppure – secondo una visione alternativa – proprio la loro debolezza ha determinato gli effetti impropri dei cenacoli notturni. Qualcosa di serio non funziona, pur in un’Italia che in termini di democrazia giudiziaria ha punteggi superiori rispetto a quelli di altri paesi europei: fra toghe e politica le porte sono eccessivamente girevoli, qua è là c’è la sensazione di accreditare l’immagine di una storia d’Italia scritta con il Codice penale, parole e pensieri non sempre sono ben misurati, non aiuta la lentezza dei processi che produce giustizia negata. Ecco un’altra questione aperta: i giudici devono essere terzi e imparziali, una pratica che però deve essere percepita come tale dal cittadino. Anche in questo sta il compito ribadito da Mattarella nel riaffermare la missione della funzione giudiziaria. Oggi si volta pagina, ha garantito il presidente: c’è da credergli.

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