L'Editoriale
Lunedì 09 Dicembre 2019
Crisi economica
Capri espiatori
Negli anni Sessanta del secolo scorso l’Italia era posizionata tra i primi Paesi industrializzati del mondo per tasso di crescita annuo (5-6%), condizione gradualmente peggiorata a partire dalla metà degli anni Settanta. Negli anni Novanta e a venire si è evidenziata un’inversione di tendenza piuttosto brusca, con un costante basso tasso di crescita. Tale tendenza si è ulteriormente accentuata a seguito della crisi iniziata nel 2008, assumendo ormai connotati strutturali. Col recente avvento di alcuni movimenti «sovranisti», si è diffusa l’idea che questo sostanziale decadimento dell’economia italiana derivi prevalentemente da fattori esterni. In primis dalla globalizzazione dei mercati, che liberalizzando gli scambi ha inasprito la concorrenza. Viene poi spesso messa sotto accusa la nostra adesione all’Unione europea, che ha comportato l’utilizzo dell’euro quale moneta comune.
Ora, per quel che concerne la globalizzazione, è un dato di fatto che abbia riguardato la totalità dei Paesi occidentali, molti dei quali godono oggi di una salute economico-strutturale assai migliore della nostra. Per altro verso, pur non sottovalutando le conseguenze negative per la nostra economia determinate dall’incompletezza del progetto europeo, non si può non tener conto del fatto che molti Paesi dell’Unione crescano più del nostro, compresi negli ultimi tempi anche Spagna, Portogallo e Grecia.
È evidente, quindi, che attribuire a capri espiatori esterni la causa principale della nostra bassa crescita non abbia alcuna sostanza, se non quella di ripulire le coscienze politiche di chi avrebbe potuto e dovuto fare meglio per tutelare il nostro bel Paese. Le ragioni di una così pesante decrescita sono infatti prevalentemente endogene, così come dipenderà solo da noi superare tali criticità attraverso l’adozione delle misure e dei comportamenti più adeguati.
Ce lo conferma il rapporto «Doing business» riferito al 2019 e redatto dalla Banca Mondiale che, con riferimento alla «capacità di fare affari», traccia un quadro drammatico delle condizione di arretratezza del nostro «Sistema Paese». Siamo al cinquantunesimo posto tra i 190 Paesi esaminati e siamo al diciannovesimo posto tra i 28 membri dell’Unione europea. Positivo è solo il dato che riguarda «l’apertura commerciale», ma accusiamo ritardi molto gravi in tutti gli altri campi. Siamo al sessantasettesimo posto per la facilità di aprire una nuova attività e al centoquattresimo per la possibilità di ottenere le licenze edilizie.
Per quanto concerne la capacità di fare rispettare i contratti (in pratica il funzionamento della giustizia civile) siamo al centoundicesimo posto, così come al centodiciottesimo per la facilità nel pagare le tasse. Il rapporto della Banca Mondiale ha stimato anche il tempo necessario ad un’impresa standard di sessanta persone per pagare le tasse e i contributi previdenziali. Le cifre ottenute vanno dalle 238 ore/uomo all’anno in Italia, contro le 90 della Finlandia, le 104 del Regno Unito, le 139 della Francia e le 148 della Spagna. Come se ciò non bastasse, arrivano altri indicatori ad evidenziare le condizioni svantaggiose del nostro Paese per quel che concerne lo sviluppo delle attività produttive. Tra questi il Digital Economy and Society Index (Desi), un indicatore sintetico che la Commissione europea produce ogni anno per misurare l’uso delle tecnologie digitali nell’economia e nella società. Nell’edizione riferita al 2019 siamo al quart’ultimo posto davanti solo a Bulgaria, Grecia e Romania. Troviamo invece Spagna e Portogallo rispettivamente al decimo e al sedicesimo posto.
Come sorprenderci, allora, delle sempre maggiori diffidenze e resistenze degli investitori internazionali verso lo sviluppo di attività in Italia, così come del fatto che chi possieda capitali in Italia spesso preferisca utilizzarli per creare imprese in altri Paesi, giovandosi di condizioni più favorevoli sul piano giuridico, fiscale e burocratico. Da molti anni anche l’Ocse, il Fondo monetario internazionale e la stessa Commissione europea ci sollecitano ad attuare riforme strutturali che contribuiscano a modificare questa situazione. Sinora invano.
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