Così il Covid ha tracciato un solco tra i tempi tragicamente spettacolare

Il tempo passa, e sono trascorsi due anni. Il passato, però, non passa, ed è bene sia così: ricordare quel 18 marzo per cosa abbiamo subìto, chi eravamo, per capire chi siamo oggi, quale società possiamo esprimere. Il Covid, ora che la grande paura è stata ricomposta in una normalità allertata e guardinga, resta come memento, imperativo futuro, un vincolo ancora sanitario ma non solo, un elemento della nostra quotidianità.

Insomma, il Covid, questo termine così supremo da violentare cuore e ragione, resta fra noi: ormai forse trasfigurato in un sentimento e in un monito, uno choc sperabilmente normalizzato. In ogni caso affidato ad una diversa psicologia percepita: non sappiamo fino a che punto differente, comunque tributario di una sofferenza indicibile. Questo ci hanno detto le cerimonie di ieri della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus. «Memoria» è la condizione esistenziale che scolpisce l’uomo bergamasco e che segna la Bergamasca, l’area più tristemente scossa dalla pandemia. Gli ormai celebri camion militari con le bare delle vittime insalutate, nel loro viaggio obbligatoriamente così lontano dal focolare domestico, faranno parte delle pagine buie della storia repubblicana.

Valga come cifra umanistica l’efficace sintesi del presidente Mattarella detta ieri a Roma, espressione di una sensibilità particolarmente vicina alla tragedia della nostra terra: «Ci inchiniamo alla memoria. Nelle immagini delle bare di Bergamo il dramma della pandemia». Memoria e speranza, si potrebbe aggiungere con le parole del vescovo Beschi, per guardare oltre. Per scrutare il futuro. Le sequenze di ieri - al cimitero, in cattedrale e al Bosco della memoria - hanno segnato un primo passaggio dal recente passato a oggi, una transizione dalla tragedia alla rinascita. Il freddo e la leggera foschia hanno reso coerente una commemorazione sobria, fatta di parole essenziali e dandole una coloritura struggente. Il ricordo dei tanti che non ci sono più: pure i giovani, e così un futuro strappato, ma soprattutto una schiera di anziani, la generazione della memoria generazionale alla quale dobbiamo il nostro grado di benessere. Il grazie ai tantissimi, specie nel mondo della sanità e del volontariato, che hanno dato se stessi, specchiandosi nella sofferenza altrui. E uno sguardo al dopo. Perché, è vero, qualcosa è andato storto e non tutto s’è svolto per il verso giusto.

«Gli ormai celebri camion militari con le bare delle vittime insalutate, nel loro viaggio obbligatoriamente così lontano dal focolare domestico, faranno parte delle pagine buie della storia repubblicana»

Ma ancora una volta, nella temperie della tragedia, la nostra terra ha risposto alla chiamata dell’esserci insieme. Non disperdere quel piccolo-grande capitale immateriale diventa oggi l’urgenza civile di una ricostruzione da ripensare prima di tutto nei cuori e nelle menti. La pandemia ha tracciato un solco tragicamente spettacolare fra un prima e un dopo, fra un mondo che ritenevamo di controllare e nutrito di certezze che sono saltate davanti all’incedere del male.

Dal 2001, dall’11 Settembre e passando per la crisi economica, finanziaria e sociale degli anni successivi, siamo nel pieno di emergenze senza soluzione di continuità. L’invasione della Russia in Ucraina si colloca in questa corsa verso l’abisso e la Giornata di ieri non ha affatto trascurato di sottolineare questa enormità.

La storia, dunque, non è finita: se il Covid ha detto che la sicurezza sanitaria non è data una volta per tutte, la guerra in Ucraina ci ribadisce che la democrazia non è purtroppo lo scontato destino dell’umanità. Un divenire crudele verso il quale la Bergamasca, che non era rimasta sola al tempo della crisi pandemica più acuta, destina ora le migliori energie per contenerne l’impatto più doloroso: l’assistenza ai profughi ucraini diventa così parte condivisa e orgogliosa della nostra rinascita post Covid.

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