Coronavirus le buone
pratiche dall’estero

Lo chiamano «el milagro» (miracolo) di Madrid. Nella capitale spagnola calano i contagi e si può andare al bar e al ristorante sino a mezzanotte e la gente si gode nel tepore del sole autunnale la classica «horchata». Agli inizi di ottobre i ricoveri nei 19 ospedali Covid madrileni avevano raggiunto la cifra di 2.500 al giorno, all’11 novembre erano 238. Il portavoce dell’associazione degli epidemiologi spagnoli spiega che alla fine di settembre sono stati acquisiti 5 milioni di test antigenici. Si sono identificati i quartieri della città più colpiti dalla pandemia e si è cominciato a testare in massa. Verificato il numero dei contagi, sono stati chiusi i circondari più a rischio. Il coprifuoco sino alle 22 per tutti gli abitanti, salvo motivi di estrema necessità, è stata la conseguenza. Certo l’epidemia a Madrid non è stata debellata ma è tornata sotto controllo anche perché la popolazione, memore delle tristi giornate di marzo, è disciplinata e mostra di rispettare le regole.

Chi invece la pandemia l’ha debellata è l’Australia, che dopo 28 giorni senza infezioni registrate, può definirsi liberata dal virus. Adesso in piena primavera australe l’incubo è svanito, aumentano le temperature e le prospettive sono rosee. Come hanno fatto? Hanno chiuso in inverno per tre mesi i due Stati più colpiti, Victoria e New South Wales, interdetto i contatti con il resto del Paese, avviato un grande screening di massa, isolati i contagiati, creati i centri per ospitare le quarantene e per tenere monitorati sintomatici e asintomatici. Interrotta la catena di trasmissione del virus, la vita riprende anche a Melbourne e dintorni.

Per gli accessi dall’estero misure di quarantena inderogabili. Solo dopo comprovato accertamento di assenza di virus si entra nel Paese. Il tutto non è stato indolore, per l’intera Australia il costo è stato di cento milioni di dollari al giorno e una perdita di 1.200 posti di lavoro giornalieri. Ci vorranno anni per riprendersi dicono gli industriali. Ma la «soppressione aggressiva» ha funzionato.

Per avere notizie delle strategie anti Covid della Cina basta ascoltare il giornalista de «La Repubblica» Filippo Santelli detenuto in isolamento da 26 giorni a Nanchino in una stanzetta tre metri per cinque senza luce naturale. L’unica colpa, ma di questi tempi in Cina la più grave, risultare positivo al tampone. La conclusione è questa: per fronteggiare il virus si può optare per la soluzione svedese che non chiude nulla, cerca di isolare i più esposti e vulnerabili. E poi per il resto si affida alla peraltro non bella «selezione naturale». Se si deve morire meglio di malattia che di fame. Da Malmö al circolo polare artico sono quasi 6 mila i casi di contagio al giorno per una popolazione di 10 milioni. Un tasso che corrisponde ai, peraltro superati, 36 mila in Italia. Senza un giorno di chiusura però.

Oppure fare come la Corea del Sud, la Cina, l’Australia, la Nuova Zelanda, tutti Paesi che hanno capito una cosa: contro il virus è una guerra e ci vogliono disciplina e soprattutto una prevenzione fatta di test, test, e ancora test. La Germania è combattuta fra chi vorrebbe fare come gli svedesi e chi invece predica la medicina territoriale, il controllo sistemico della pandemia. Alla fine i contagi salgono ma si fanno un milione e mezzo di tamponi faringei alla settimana, esclusi i test antigenici. Il nemico non è sconfitto ma non sfonda. Il risultato è chiaro: l’economia tedesca cala nel 2020 del 5,2% circa, meno che nell’anno della crisi del 2009. L’Italia è stata la prima a Vo’ Euganeo a realizzare un’efficace indagine epidemiologica di massa anti Covid, volta a stanare gli asintomatici. La lezione è a tutti accessibile: solo una medicina territoriale potenziata rende possibile la prevenzione.

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