Coprifuoco, quando
la vita si protegge

Le notti dei Paesi in guerra sono piene di angoscia e di pericoli. Si dorme male, quando si dorme. Di angoscia perché la propria vita è uscita salva dal giorno concluso, ma domani non si sa cosa accadrà: di certo riprenderà la lotta faticosissima per la sopravvivenza, per evitare di essere uccisi ma anche per procurarsi cibo e acqua. Di pericoli perché le bombe non smettono di cadere, portando con sé il messaggio dell’aggressore: non avete pace nemmeno nelle ore del riposo. Nella Sarajevo assediata per quasi quattro anni (1992-1995)

il coprifuoco scattava alle 20 e terminava alle 7. Ai rischi mortali del giorno se ne aggiungevano altri. Nella capitale bosniaca totalmente al buio per risparmiare energia elettrica, fumare alla finestra diventava un atto ad alta probabilità di morte: il luccichio del tabacco che brucia diventava il segnale della presenza di una persona in quel punto preciso e i cecchini appostati nei grattacieli al di là del fiume Miljacka sparavano ad altezza di quel lumino nelle tenebre. Quante persone hanno perso la vita così, per una fumata liberatoria, prima di capire di doversi sottrarre a quel breve piacere per non soccombere alla barbara fucilata. Alcune accortezze notturne erano decisive durante il conflitto. Ad esempio coricarsi nelle stanze meno esposte al lancio di granate: famiglie concentrate in pochi metri quadrati, nell’unico locale senza finestre. Ma quando c’è in gioco la vita non si va per il sottile.

Per le strade dopo il coprifuoco c’erano solo rare pattuglie della polizia. Essere fermati dopo le 20 comportava l’accompagnamento in caserma e il soggiorno in una stanza fino alle 7, oltre che una multa: gli agenti non si assumevano la responsabilità di lasciare andare le persone, con il rischio che morissero sulla via del ritorno colpiti da una granata o da un cecchino.

Come se non bastasse, di notte entravano in azione anche bande della criminalità organizzata, incuranti dei pericoli e assetate di razzie, violenze e spaccio di droga negli androni dei palazzi. Nel marzo scorso Sarajevo ha scoperto un’altra forma di coprifuoco: quello legato al Covid, dalle 18 alle 5 del mattino. Ma nella capitale vittima dell’assedio più lungo della storia moderna, ci vuole ben altro per piegare l’umore dei residenti forgiati da dolori più grandi, braccati dalla morte per mano umana. Questo divieto ha comunque riportato in superficie il ricordo delle notti peggiori della città.

Il vice segretario del Pd Andrea Orlando ha affermato che «coprifuoco (per il Covid, ndr) è un termine sbagliato, si usava quando l’Italia era in guerra e si vietava alla gente di uscire di casa. Noi dovremmo parlare di riduzione delle attività serali perché nessuno lancia le bombe, per fortuna». L’ex ministro della Giustizia esprime un’obiezione giusta in linea di principio: abbiamo visto che cosa è un vero coprifuoco in un Paese vittima di un conflitto. Ma si dice giustamente che l’Italia (e in generale l’Europa occidentale) sta affrontando la più grave crisi sanitaria ed economica dalla fine della Seconda guerra mondiale. E allora lasciateci usare quel termine, coprifuoco, in senso lato: uno strumento per cercare di vincere la nostra battaglia contro un nemico infido come il coronavirus, che proprio nella nostra terra ha mietuto oltre seimila vittime. Ovvio, non siamo a Sarajevo (dove nell’assedio morirono 15 mila persone, 1.200 bambini e ci furono 70 mila feriti: un abitante su cinque fu colpito da granate o cecchini) e l’Italia non è teatro di una guerra da 75 anni. Ma il Covid va fermato, con la «riduzione delle attività serali» o coprifuoco che dir si voglia.

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