L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 31 Dicembre 2019
Conte si allarga
Di Maio all’angolo
Dicono che non sia piaciuta ai capi grillini l’intervista con cui Giuseppe Conte ha detto che si vede nel futuro come un leader politico e non certo «come un Cincinnato». E si capisce, il perché di questo «disappunto» di Di Maio. Conte si sta mettendo al centro dell’alleanza tra Pd e M5S per candidarsi ad essere il futuro front-man dell’alleanza in funzione anti-Salvini. In questa posizione Di Maio finirebbe per scomparire risucchiato nel gorgo del disastro elettorale grillino prossimo venturo. A Giuseppe Conte si attaglia l’antico motto: «Beato chi ha un occhio nella terra dei ciechi».
Insomma, senza un’identità politica e senza un’idea stabile in testa, ma con una laurea e una cattedra, un perfetto nodo alla cravatta e un certo uso di mondo, il professore è stato un perfetto presidente del Consiglio sin dal primo momento che ha messo piede, da perfetto sconosciuto, nella stanza d’oro di Palazzo Chigi.
Anche quando chiedeva a Di Maio: «Questo lo posso leggere?», e quello gli rispondeva, padronale: «No, no», aveva già un certo stile, un aplomb, un portamento che lo faceva sembrare un vero presidente del Consiglio. Oggi mette a frutto due anni di esperienza e guarda in alto. In alto, fin dove? Qualcuno sussurra: fino al Quirinale, dove però dovrebbe sfidare qualche peso massimo superstite del passato come Prodi o il messo dell’iperuranio dei poteri forti Mario Draghi. Ma, a parte il Colle, quel che più sembra concreta è l’ambizione di diventare il volto credibile o almeno presentabile, di un nuovo centrosinistra che inglobi, sussuma, aspiri, ingoi ciò che resterà dei Cinque Stelle, o quantomeno quella parte che guarda a sinistra. E quando Zingaretti, scandalizzando non pochi dei suoi sodali, ha detto che Conte è «un autorevolissimo punto di riferimento della sinistra», intendeva lanciarlo in questo ruolo che consentirebbe al Pd di recuperare tanti voti persi negli ultimi anni.
Conte peraltro è l’uomo più flessibile del mondo. È l’unico ad aver presieduto senza soluzione di continuità temporale un governo di destra e uno di sinistra. Neanche Depretis, neanche Andreotti sono stati capaci di fare altrettanto. Lui si è piegato in un verso quando sedeva accanto a Salvini, e si piega nell’altro ora che ha Franceschini come vicino di poltrona. Si piega con grazia, e gli viene naturale sia l’apertura che la chiusura dei porti. Non che sia incapace di mostrare i canini, si intende. Quando cadde il suo primo governo, si conquistò in aula l’ammirazione dei democratici infilzando Salvini, lui novello Cicerone, esecrandolo come il nemico catilinario della Repubblica. Salvini se lo è legata al dito e non passa giorno che non lo attacchi. Ma così fa il gioco di Conte che come l’anti-Salvini si presenterà all’elettorato.
Si capisce dunque la stizza di Di Maio, alle prese con la rivolta nei gruppi parlamentari, con i senatori nel panico che scappano armi e bagagli verso la Lega, con le beghe sui rimborsi e sulle decime da versare a Casaleggio, con i capricci della Lezzi e il rancore di Nicola Morra ancora una volta lasciato fuori dal governo, lui che da professore di scuola già si vedeva alla scrivania di Francesco de Sanctis al posto di Fioramonti. E persino, Di Maio, deve vedersela con quelli che, sfacciati, gli chiedono di scegliere tra la guida del movimento in crisi e quella del ministero degli Esteri. Giggino medita vendetta tremenda vendetta verso quel professorino azzimato che si è montato la testa e prova a rubargli la scena con ottime possibilità di riuscita. «Io ti ho creato, e io ti distruggo», mormora tra sé e sé il deputato di Afragola.
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