Conte sempre più debole
Il governo ne risente

Il flebile penultimatum di Giuseppe Conte ai suoi due vicepremier ha un merito: aver reso plastica la debolezza politica del presidente del Consiglio di fronte ai leader dei due partiti quasi (ex) alleati e litiganti. Conte ha detto a Salvini e Di Maio: se non la smettete di litigare, io mi dimetto. Una salva di cannone a vuoto: non è nella disponibilità di Conte il destino del governo. Se a Salvini e Di Maio farà comodo che lui resti al suo posto, lui resterà; se viceversa a quei due, o a uno dei due, servirà mandare a casa il governo, lui farà le valigie. Non è stato forse definito, il premier, un «notaio» dai due consoli che lo hanno messo a Palazzo Chigi negandogli anche il minimo margine di autonomia politica e delegandogli la sola funzione, giustappunto notarile, di fare da compensazione tra i due partiti, nemici più che avversari?

Lo stato di debolezza del presidente del Consiglio deriva proprio dalla missione «super partes» che gli è stata conferita all’inizio del mandato. E appare piuttosto singolare l’iniziativa di Conte di annunciare un discorso agli italiani che sembrava poter segnare davvero la differenza nella caotica situazione politica seguita al voto europeo. E invece il flop ha semmai suscitato in Salvini il sospetto che la mossa fosse concordata con Di Maio (da cui Conte politicamente dipende) per «stanare» Salvini e capire quali siano le sue vere intenzioni. Se questo sospetto del leader leghista fosse fondato, non farebbe che rendere ancora più fragile la figura del presidente del Consiglio: passando da «notaio super partes» a strumento di uno dei due leader, perderebbe persino l’unica funzione che gli è stata delegata.

Ed è probabile che il sospetto sia nato anche da diverse affermazioni fatte nel corso dello speech a Palazzo Chigi: il primo è la contrarietà alla Tav (a meno che Francia e Commissione europea non ci impongano di farla ugualmente), il secondo il rinvio alle calende greche della flat tax che dovrebbe vedere la luce «nell’ambito di una generale riforma del sistema fiscale», campacavallo. Ciò ci dice che da questa mattina Conte sarà considerato dalla Lega – più di quanto già non avvenisse – uno strumento nelle mani di Di Maio. Il quale continua a dire di rappresentare «la prima forza politica del Paese», evidentemente negando un valore politico alle ultime elezioni, al crollo di voti del M5S (sei milioni persi su dodici) e al trionfo oltre ogni speranza del Carroccio. La realtà è che la cosiddetta «prima forza politica del Paese» deve aspettare di scoprire cosa farà Salvini, magari attraverso la mossa di Conte, per decidere come comportarsi.

E come si comporterà Salvini? Probabilmente ancora non lo sa neanche lui. Non sa cioè se gli converrebbe far crollare il castello per andare a settembre a elezioni anticipate e capitalizzare il 34 per cento delle europee in seggi alla Camera o al Senato, o continuare a governare con un alleato indebolito e finito nella confusione, un po’ come successe al Pd dopo la sconfitta dell’anno scorso.

L’elettorato si sa, punisce chi provoca crisi al buio ma anche i responsabili di un governo paralizzato, incapace di decidere alcunché, foss’anche la navigazione delle grandi navi da crociera nel Canal Grande di Venezia.

Nel frattempo si avvicina a grandi passi il momento in cui bisognerà mettere nero su bianco una legge di Bilancio che vada bene a Bruxelles, che non faccia impazzire lo spread, che eviti l’aumento dell’Iva, che non aumenti le tasse e che magari riesca a dare una mano all’economia che ristagna. Almeno su questo ha sicuramente ragione Conte: «Per riuscirci c’è bisogno di un governo».

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