L'Editoriale / Bergamo Città
Venerdì 27 Marzo 2020
Con il virus c’è bisogno
di solidarietà economica
fra territori dell’Europa
La crisi economica e finanziaria del 2008 ci ha insegnato che l’attuale struttura dell’Unione economica e monetaria non regge agli urti degli shock economici. La ragione è piuttosto semplice: le crisi colpiscono in modo differente gli Stati membri dell’Unione – per questo sono detti shock asimmetrici –, mentre il governo dell’euro è unitario e accentrato in capo alla Banca centrale europea. Si aggiunga che i Trattati europei vietano sia all’Unione sia agli altri Stati membri interventi finanziari di salvataggio di un altro Stato (cosiddetto bail out clause) e quindi di prestare aiuto finanziario in caso di crisi. Quindi, quando le recessioni si abbattono sugli Stati membri o, nel caso specifico, sull’Italia, gli Stati restano soli ad affrontare il problema.
La reazione a questa situazione e, in particolare, alla crisi del 2008 ha assunto due direzioni: austerità di bilancio, che ha significato, essenzialmente, tagli alla spesa pubblica e creazione del Meccanismo europeo di stabilità, dotato della funzione specifica di finanziare i singoli Stati membri la cui finanza pubblica naviga in cattive acque.
Tuttavia, l’accesso ai fondi del Meccanismo europeo di stabilità – che oggi ammontano a più di 410 miliardi di euro – è fortemente condizionato dall’assunzione di pervasivi obblighi da parte dello Stato finanziato. Detto in altre parole, se l’Italia dovesse chiedere aiuto al Mes, cosa che finora non ha mai fatto, dovrebbe cedere una parte significativa della sovranità in materia di finanza pubblica, ossia una parte significativa del potere di decisione in tema di spesa pubblica e di imposte.
La logica alla base di questo meccanismo «do ut des» è, in sostanza, punitiva: si presume che lo Stato che chiede aiuto è anche responsabile della crisi o, in termini ancor più netti, è causa della crisi che sta colpendo le sue finanze pubbliche. Se questo è l’attuale quadro, è evidente che la presente crisi non risponde a questa logica, nel senso che è stata innescata da un evento imprevedibile, un virus, e altrettanto imprevedibile sono i percorsi della sua diffusione e le future conseguenze. Premesso che la crisi richiede risorse pubbliche eccezionali, che dovranno essere distribuite direttamente alle imprese e alle famiglie, queste dovrebbero essere raccolte a livello dell’Unione e distribuite senza condizioni agli Stati richiedenti. Dovrebbe essere l’Unione europea – presumibilmente attraverso il Mes – a promuovere la raccolta sul mercato dei capitali delle risorse per affrontare la crisi attraverso l’emissione di titoli di debito, i cosiddetti eurobond o coronabond.
Questa azione avrebbe due indubbi vantaggi: la certezza di raccogliere le risorse necessarie a superare la crisi, vista la garanzia da parte di tutti gli Stati dell’area euro, e ottenere condizioni di favore rispetto al caso in cui la richiesta al mercato venisse da uno solo Stato, in particolare bassi tassi e tempi di rimborso lunghi (trentennali o quarantennali).
Tuttavia, il sicuro aspetto positivo si avrebbe in termini di integrazione europea. Seppur con il tradizionale meccanismo dell’integrazione funzionale, orientata di volta in volta a un preciso obiettivo, è venuto il momento per un ulteriore passo verso la federalizzazione dell’Unione, ossia all’assunzione della funzione di stabilizzazione economica da parte di Bruxelles.Questo è il solo modo in cui una «Unione» può funzionare, che è quello basato sul principio di solidarietà fra i territori nei momenti di difficoltà. L’ora per la responsabilità, altrettanto necessaria al processo di federalizzazione, deve essere rinviata ai momenti di crescita economica.
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