Compleanno amaro
per il governo

Non poteva cadere in un momento peggiore il primo anniversario del governo Conte, in carica dal primo giugno 2018. Se non altro perché la cosa di cui più si discute a pochi giorni dal terremoto elettorale, è quando cadrà. Pochi scommettono sulla sua durata ed è opinione comune che se il governo Conte cadesse si porterebbe dietro la legislatura: la data per un ritorno alle urne sarebbe il 29 settembre. Dunque il presidente del Consiglio avrà poco da festeggiare quando oggi spegnerà la candelina insieme ai suoi collaboratori.

Non certo con i due vice Salvini e Di Maio che dopo il clamoroso risultato delle elezioni del 26 maggio a stento si sono salutati nei giardini del Quirinale durante il ricevimento per la festa della Repubblica. Eppure loro siglarono un anno fa il «Contratto». Non un’alleanza tra due partiti che in campagna elettorale si erano più che insultati; ma appunto un rapporto contrattuale con un testo dove ognuno aveva fatto scrivere le sue priorità, mentre sulle cose controverse ci si era affidati a frasi generiche.

Giuseppe Conte, il «notaio» del governo, l’uomo messo da Di Maio a fare da mediatore tra i due consoli senza una autonomia politica si proclamò l’«avvocato del popolo». Indicato nel governo ombra del M5S come ministro di secondo piano, era balzato sulla poltronissima quasi per caso. Di Maio e Salvini gli chiarirono subito che non era lui a comandare. Casaleggio gli mise accanto Rocco Casalino. Ad agosto, la tragedia del ponte Morandi a Genova: di seguito la fatwa del ministro Toninelli contro Autostrade e la minaccia di rescissione del contratto con lo Stato (mai avvenuta). I pasticci sul decreto per la ricostruzione si sono risolti mettendo in mano al sindaco di Genova, un uomo capace, tutta la questione.

Nei mesi successivi Salvini ha occupato la scena permanentemente con la sua politica per l’immigrazione. Di Maio lo ha inseguito facendo approvare il reddito di cittadinanza e proclamando dal balcone di Palazzo Chigi «l’abolizione della povertà». Intanto però l’economia ha cominciato ad andare male, il debito a crescere, lo spread a schizzare in su: da quel momento Bruxelles ci ha guardato con sempre maggiore preoccupazione. Quando è stata approvata Quota 100, la Commissione è intervenuta: più Salvini e Di Maio proclamavano nelle piazze che «delle letterine di Bruxelles» non sapevano cosa farsene, e che «avrebbero tirato dritto», più gli europei ci stringevano da vicino frantumando la resistenza del mite Tria. La resa è stata siglata negli uffici di Moscovici dove Tria ha dovuto scrivere la legge di Bilancio. «Sarà un anno bellissimo» diceva Conte. Il ministro Savona, da molti considerato il consigliere dei no-euro, in silenzio toglieva le tende emigrando alla Consob.

Di seguito i grillini hanno per la prima volta rotto un tabù bocciando la richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per aver bloccato un gruppo di profughi a bordo della nave «Diciotti».

Ma più si avvicinava la data del 26 maggio, più era chiaro che le europee sarebbero state un test per vedere chi conta di più tra leghisti e grillini, più il governo si è man mano fermato. Durante la lunghissima campagna elettorale, preceduta da consultazioni regionali regolarmente vinte dai leghisti e conclusasi col rovesciamento dei rapporti di forza, con la pesante sconfitta grillina e il successo leghista, Di Maio e Salvini si sono scontrati senza tregua su tutto, dalla Tav alla flat tax.

E così dopo il voto è cominciato il conto alla rovescia per Conte. «Non mi farò commissariare» è stata la sua ultima dichiarazione. Proprio mentre Salvini era al ministero del Tesoro a discutere, lui, con Tria della nuova legge finanziaria.

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