L'Editoriale
Giovedì 12 Settembre 2024
Commissione europea, equilibri e sbandate
EUROPA. Ci mancava solo questa. All’indomani del Rapporto Draghi, una radicale sveglia per le istituzioni europee, ecco complicarsi la candidatura in pectore del ministro del Pnrr, Raffaele Fitto, a una delle 5 vice presidenze esecutive e a una delega di peso nella Commissione di Bruxelles.
La decisione è rinviata a martedì, perché ci vuole tempo per ricomporre il quadro. Ursula von der Leyen inizia il secondo mandato in salita e dovrà ricorrere al manuale Cencelli elevato alla massima potenza. La distribuzione delle deleghe richiede un delicato punto d’incontro fra equilibri politici e geografici, interessi e peso dei Paesi, competenza dei candidati e anche la questione di genere. L’opposizione a Fitto, prima dei liberali e ora di socialisti e verdi e pure di una parte dei popolari (la maggioranza Ursula), era nell’aria ed è la puntata successiva alla scelta di Giorgia Meloni di non votare il bis della presidente, restando così ai margini della coalizione europeista. Decisamente poco per chi nutre l’ambizione, o la pretesa, di scrivere la storia.
Altra musica rispetto alla scaltrezza di Berlusconi che negli anni ‘90, consapevole di essere un controverso outsider nella proiezione europea, scelse come candidati Monti e la Bonino, due nomi non dei suoi. E in controluce si può leggere la recente ripresa di Forza Italia a guida Tajani nel suo star dentro la logica dei popolari, in particolare della famiglia tedesca che ne rappresenta l’azionista di maggioranza. Il punto di caduta iniziale sembra proprio essere questo: la premier italiana è messa di fronte alle proprie contraddizioni che, dopo aver interrotto la marcia di avvicinamento ai popolari, s’è parcheggiata nell’area grigia fra il centrodestra e la destra «patriottica» di Orban e Salvini. La tattica dei due forni è tornata indietro come un boomerang e la stessa amicizia con Ursula non compensa il girovagare qua e là. La questione è politica, non personale. Fitto, ex democristiano dal passo felpato, gode di un apprezzamento trasversale ed è stimato anche a Bruxelles dove vi è rimasto per due legislature. Da co-presidente degli euroconservatori aveva votato il commissario Gentiloni del Pd. Un moderato, non certo un pasdaran. Lo snodo riguarda il perimetro dei poteri per il ministro italiano, comunque espresso da una destra sovranista.
Tutti i 27 membri hanno diritto a un proprio rappresentante nella Commissione. Il tema non è questo, un aspetto però va chiarito: il commissario non è, o non dovrebbe essere, l’ambasciatore del proprio Paese ma deve promuovere l’interesse generale dell’Unione e su questo presta giuramento davanti alla Corte del Lussemburgo. In discussione è la vice presidenza esecutiva, una specie di supercommissario che supervisiona il lavoro degli altri colleghi, una scelta che nel nostro caso oltrepassa i confini della maggioranza Ursula. La domanda, e insieme la critica a von der Leyen, è: quali garanzie, in termini di indirizzo politico coerente con il programma della Commissione, può dare Fitto, indicato da un partito che non appartiene all’europeismo classico? Ad esempio: transizione ambientale, diritto di veto, integrazione politica, cessione di ulteriori sovranità nazionali. L’assegnazione di un ruolo di prestigio a Fitto è il riconoscimento a un Paese fondatore da sempre allineato all’ortodossia europeista, o rappresenta un’estensione della maggioranza?
La presidente dell’esecutivo comunitario fin qui pareva optare per un’apertura selettiva ai conservatori di Meloni in modo da creare un solco fra loro e la ditta orbaniana, nella prospettiva di una sorta di «larghe intese» centrate più sull’attivismo della Commissione di Bruxelles e meno sui rapporti di forza nell’Europarlamento. Il secondo tempo di questo pasticcio è la graticola che attende i commissari al vaglio delle Commissioni parlamentari, dove l’arma della bocciatura degli avversari è a doppio taglio perché scatenerebbe una reazione uguale e contraria. Stando ai numeri, il dominus, con i suoi 14 commissari più la presidente e con il quale bisogna fare i conti, è il partito popolare a trazione tedesca.
L’attacco frontale dei socialisti in realtà potrebbe essere il tentativo di alzare la posta per ottenere portafogli significativi ai propri candidati che sono soltanto una manciata. Un compromesso in extremis è sempre possibile e la diplomazia è in movimento, anche se c’è chi dovrà far buon viso a cattiva sorte, nel senso di un ridimensionamento delle attese. L’attendismo del Pd italiano riflette l’imbarazzo di una scelta in ogni caso scomoda: affossare Fitto vuol dire subire l’accusa di non fare l’interesse dell’Italia, appoggiarlo potrebbe significare rompere l’unità dei socialisti. Per il momento fra i dem vale la linea prudente dei Bonaccini e dei Decaro, la più responsabile, cioè una valutazione del candidato «senza alcun pregiudizio». Il pericolo per Fitto è che, suo malgrado, finisca in una partita più grande di lui precipitando in un contenitore in cui si sommano i limiti di maggioranze variabili diverse fra loro (Parlamento, Commissione, Consiglio dei leader nazionali), le dissonanze nazionali all’interno delle stesse famiglie politiche e soprattutto le sbandate di Germania e Francia, i due Grandi in crisi.
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