Clima, promesse
da mantenere

Gli studi della comunità scientifica, se tutti gli Stati mantengono gli impegni assunti, prevedono che l’aumento della temperatura resti sotto i 2 gradi. Prima della conferenza di Glasgow gli obiettivi portavano a 2,7 gradi. Stefano Caserini, uno dei maggiori esperti italiani delle strategie di riduzione dei gas climalteranti e della comunicazione del problema dei cambiamenti climatici, esprime una valutazione del negoziato di Glasgow non nei termini semplicistici di successo o fallimento.

L’esito dei lavori della Cop26 si misura sull’aggiornamento degli impegni per ridurre le emissioni e sul completamento delle regole per l’applicazione dell’Accordo di Parigi del 2015, riguardo all’articolo 6 sullo scambio delle quote di emissione. Ma l’aumento del supporto finanziario ai Paesi vulnerabili non è stato raggiunto. Servono ancora regole, come osserva di nuovo Caserini, affinché gli stanziamenti non vadano a rinforzare le oligarchie locali e la corruzione, ma siano destinati all’adattamento al cambiamento climatico.

L’obiettivo ambizioso di 1,5 gradi è diventato la nuova frontiera della politica internazionale, dal G20 di Roma alla dichiarazione congiunta Usa-Cina. Restare sotto i 2 gradi è già molto impegnativo: una rivoluzione per il sistema energetico e produttivo. Conseguire l’obiettivo di rimanere entro 1,5 gradi significa ulteriori sforzi. Si potranno mettere in campo anche in futuro. Il negoziato sul clima non finisce con questa Cop. Ora ciò che conta è mantenere le promesse.

«L’attenuazione degli effetti dell’attuale squilibrio dipende da ciò che facciamo ora, soprattutto se pensiamo alla responsabilità che ci attribuiranno coloro che dovranno sopportare le peggiori conseguenze», scrive Papa Francesco nella «Laudato si’». Il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici fu istituito nel 1988; la prima conferenza si tenne a Rio nel 1992. Il tema, però, non è mai stato al centro dell’attenzione dei media come quest’anno. I giovani continuano a provocare, chiedendo ai governi di alzare l’asticella degli impegni, perché le maggiori conseguenze dei nostri ritardi ricadranno su di loro e sulle popolazioni più povere, già esposte all’incremento di ondate di calore, siccità, uragani, carestie. Più di trent’anni fa sapevamo già tutto: cause ed effetti. Politica e grande industria erano già a un passo dall’affrontare il problema del riscaldamento globale, ascoltando la scienza, così come avvenne con il buco nell’ozono. Il cambiamento, se compiuto allora, quando tutto era già chiaro, ci avrebbe evitato le conseguenze più traumatiche.

L’esito dei lavori dei negoziati sul clima si giudica dalle decisioni conseguenti, come l’aggiornamento al rialzo dell’impegno dell’Unione Europea per la riduzione dei gas serra, passato, sulla linea dell’Accordo di Parigi, dal -40% al -55% nel 2030 rispetto al 1990, con il pacchetto legislativo «Fit for 55» del luglio scorso e le relative ricadute sulle legislazioni degli Stati membri. La decarbonizzazione è un processo lungo e faticoso. Richiede di intervenire sull’intero processo produttivo. Oggi non ci si scontra più con chi nega la necessità di tagliare i gas serra per mitigare il riscaldamento globale, ma con le argomentazioni, più subdole, di chi sostiene che la società e l’economia non siano ancora pronte ad affrontare le sfide della decarbonizzazione. Oppure quelle di chi asserisce che sia ininfluente un impegno dell’Unione Europea, da cui proviene solo l’8% delle emissioni, rispetto, per esempio, al 28% della Cina, che continua a ricorrere al carbone. La CO2, in realtà, permane nell’atmosfera ed è arrivata, innanzitutto, dai Paesi che hanno avviato la rivoluzione industriale, quindi hanno accumulato per primi il debito ecologico nei confronti dei Paesi più poveri e delle generazioni future. Posticipare, ancora una volta, l’azione è di gran lunga più costoso e rischia di diventare fatale.

La transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili non ha alternative. È sostenuta da università, agenzie internazionali e ormai gran parte della finanza. Il ricorso alle fonti fossili dev’essere mantenuto per un tempo il più possibile breve. Per salvarci, dovremo rinunciarvi. Non possiamo aspettare la fusione nucleare, che ora non esiste, né confidare nella cattura e nello stoccaggio della CO2, una tecnologia problematica e costosa. È come se, nella prima fase della pandemia, non avessimo preso misure per il contenimento del contagio, aspettando i vaccini. Dobbiamo agire subito. Azzerando le emissioni con le fonti rinnovabili.

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