L'Editoriale
Lunedì 28 Ottobre 2019
Chiesa dal volto
più amazzonico
Qualcuno in passato aveva addirittura messo in dubbio che avessero un’anima. I popoli indigeni dell’America Latina sono stati per anni il bersaglio dei vizi dell’eurocentrismo della missione. In loro non passava l’azione di Dio al punto che i conquistatori spagnoli mandati dai Re cattolici con la benedizione di Papa Alessandro VI non si fecero scrupoli a passarli per le armi, donne, uomini e bambini, evangelizzazione sulla punta delle spade. Già Karol Wojtyla chiese perdono.
Adesso il Sinodo speciale dedicato all’Amazzonia spinge ancora più in là e conferma nel documento finale il rifiuto «di un’evangelizzazione di stile colonialista», perché annunciare il Vangelo significa «riconoscere i germi della Parola già presenti nelle culture». È la Chiesa «dal volto amazzonico» di cui il documento sinodale parla per ben otto volte. È la Chiesa che cambia paradigma definitivamente e non solo riconosce l’anima ai popoli indigeni ma spiega che la loro cultura e spiritualità ancestrale fa parte del patrimonio liturgico, teologico e spirituale della Chiesa universale.
Tra le molte sollecitazioni di riflessione scaturite dal Sinodo, il richiamo al rispetto delle culture e dei diritti dei popoli indigeni e il grido che loro per primi hanno levato in difesa della terra cercando interlocutori e aiuto, è quella più importante. Perché risponde alla domanda «dove è Dio» e insieme sbaraglia la visione dell’individualismo possessivo, normale e quasi naturale per molti, che nasce dalla concezione liberalista che uno con il denaro e la sua abilità può diventare padrone di tutto e di tutti. Nei confronti dei popoli indigeni dell’America Latina e di altre latitudini del mondo tutto è sempre stato permesso e a volte benedetto. E chi nella Chiesa si mise di traverso finì ai margini e dimenticato per molto tempo: da Bartolomeo de las Casas a Francisco de Vitoria che all’università di Salamanca prese le difese dell’indio al punto di essere chiamato il padre del diritto delle genti. Il Sinodo appena concluso rilancia la responsabilità della Chiesa di assumersi la mondialità come cifra della fede e la sua inculturazione come strumento per renderla visibile, smontando ogni tentazione individualistica. È un bel ripasso di quella visione Dio-Uomo-Mondo che nei documenti del Vaticano II è presente dalla prima parola all’ultima, ma che abbiamo perso per strada in questi anni di sfilacciamento per via di analisi poco rigorose o troppo rigorose sulla «Tradizione» considerata fissa e immutabile e dunque da opporre a qualsiasi processo di interculturalità. Ciò che il Sinodo in questo mese ha ribadito, al di là delle richieste più immediate frutto di urgenze pastorali, è una visione dell’evangelizzazione come processo di consolidamento e di rafforzamento dei «germi della Parola» presenti nelle culture del popolo di Dio e non come distruzione di quei semi giudicati a priori eretici. Al Sinodo, se proprio dobbiamo indicare un elemento vittorioso, sul podio va messa la teologia india per anni criticata per le sue posizioni poco chiare tra sincretismo religioso e ritorno al paganesimo, una sorta di riciclaggio della teologia della liberazione. Oggi finalmente c’è un accordo circa il soggetto della teologia india e cioè null’altro che il popolo oppresso non solo in Amazzonia. Dio è lì che abita, nel cuore dei popoli una volta considerati senza anima, che proteggono la terra, l’acqua, le piante, insomma tutto il mondo e quanto contiene e scuotono i nostri affari predatori. La gioia di padre Eleazar Lopez Hernandez, che di quella teologia è uno dei padri riconosciuti, perito al Sinodo è la sintesi più eccellente del lavoro di questo mese.
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