Ceto medio penalizzato, il prezzo della crisi e la differenza nell’urna

Il commento. Se c’è una correlazione, e certamente c’è, tra comportamenti elettorali e status socioeconomico, queste elezioni sono una sfida soprattutto per il ceto medio. C’è solo da stabilire se è stata percepita, oppure ancora no, la nuova situazione in cui la crisi ha messo lo strato sociale di quella fascia. Per intenderci, in un Paese con cattiva distribuzione del reddito, ci riferiamo a livelli attorno ai 1.400-1.500 euro mese, con forte presenza degli autonomi, oggi sballottati tra ripresa dei consumi e legnata delle bollette.

Importante rilevare che la composizione dei redditi complessivi, in questo momento, sconta nel bene e nel male una stagione in cui i riferimenti classici sono stati sostanzialmente terremotati. L’accumularsi degli effetti prima del Covid, con i relativi ristori, poi dell’inflazione, improvvisamente cresciuta (in soldoni: -80 miliardi di potere d’acquisto), dopo tanti anni di benefico effetto euro, e infine della crisi energetica, ha prodotto l’esito di una maionese impazzita. C’è un sottosopra che va letto con attenzione. L’esito più importante è che i numeri dicono che alcune parti dello scenario reddituale, cioè quelle più in basso, escono sostanzialmente intatte, altre, in alto, sono colpite ma hanno - per il momento - i mezzi per reagire e compensare. A soffrire davvero è quella che resta schiacciata in mezzo. Non ha ricevuto aiuti sufficienti e non ha riserve per compensare l’ondata negativa.

Nel suo blog, Federico Fubini chiama questa terra di mezzo «squeezed middle» e non c’è bisogno di conoscere l’inglese per avere l’immagine di un limone rimasto incastrato e spremuto. I calcoli dell’ultima indagine di Bankitalia sui bilanci familiari dal 2016 al 2020, dicono che il 7% delle famiglie più ricche ha consolidato il controllo del 50% del reddito totale mentre la metà dei più poveri raggiunge a malapena l’8% complessivo. È la diseguaglianza che percepiamo.

Ma attenzione, qui sta il punto di attualità. Il reddito del 20% delle famiglie più povere è ultimamente aumentato del 12%, grazie ai sussidi della pandemia e delle iniziative di sostegno appena precedenti, pur allestite alla carlona per ragioni elettorali. Con i bonus e altri interventi legati alla crisi energetica (siamo quasi a 50 miliardi), il 10% dei più poveri ha pareggiato i danni. È una media e qualcuno non vi si riconoscerà, ma qui il danno sociale è stato smorzato. Subito sopra però luce, gas e benzina riesci a fronteggiarli al massimo attorno al 40% del rincaro. Le classi alte compensano, ma il ceto medio si tiene una botta non indifferente. L’effetto dell’inflazione (anche i mutui sono più cari) fa il resto e la spesa diventa un problema. Sullo sfondo di tutto questo, la mancata riforma fiscale, un obbligo del Pnrr, che è stata spazzata via insieme al Governo Draghi. Lì dentro c’era l’intervento per rimodulare il prelievo sui redditi che vanno da 30 a 40mila euro, oggi anche falsati dall’inflazione. Due anni di lavoro convergente nelle Commissioni, ora sono sostituiti solo da promesse di tassa piatta che piatta non è (le aliquote possono essere decine e i due partiti che la sostengono ne hanno due diverse di riferimento: 15% e 23%). Fonti neutrali la indicano come un favore ai redditi alti, forse solo un pochino per quelli medi, ma sta di fatto che i Paesi normali manco ne parlano, mentre è vigente solo in Russia e in Ucraina, guarda un po’.

E ora, vigilia elettorale, c’è da valutare con quale stato d’animo andranno a votare i succitati «squeezed». Non è un caso, forse, che le turbolenze previsionali segnalavano problemi nell’area politica di centro. La correlazione, anche qui, non è una regola, ma insomma i ceti medi diffidano dalle polarizzazioni, cercano riparo sotto tetti più moderati. Essendo numericamente molti, e culturalmente contrari all’astensione, potrebbero fare qualche differenza. A meno che si arruolino anch’essi tra gli arrabbiati.

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