Celle strapiene, soluzioni a metà

ITALIA. Partiamo guardando il lato positivo. Dopo un anno di promesse e rinvii, qualcosa si è mosso dalle parti di via Arenula, sede del ministero della Giustizia.

Il decreto approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri rappresenta un tentativo, finalmente, di dare una risposta a un problema enorme e complesso che è quello del sovraffollamento carcerario. Il ministro Carlo Nordio lo aveva promesso quasi un anno fa, di fronte all’ennesimo caso di suicidio di un detenuto (in quel caso era una detenuta, Susan John, 48 anni, che si lasciò morire di fame e sete nel carcere di Torino).

Da allora la situazione, se possibile, è peggiorata: i detenuti sono ancora di più, oltre 61mila, 15 mila in più della capienza degli istituti, e i suicidi, da inizio anno, sono 49, praticamente due a settimana. Mancano undicimila agenti di polizia penitenziaria e il tasso di aggressione nei loro confronti è salito del 40 per cento. Ci sono istituti penitenziari che sono al collasso, con celle condivise anche da 15 persone per 20 ore al giorno, con un solo bagno che funziona anche da cucina. Già in passato l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. E ci sono tutte le premesse per finire di nuovo alla sbarra. Inoltre, non serve molta immaginazione per figurarsi cosa può succedere in ambienti simili nelle torride giornate estive che ci attendono. E anche per farsi qualche domanda sulla capacità di rieducazione che questi istituti possono vantare sui detenuti. Il che non solo è un dettato costituzionale (articolo 27), ma è anche la migliore garanzia che una volta fuori, queste persone non tornino a delinquere (come invece, purtroppo, succede al 68 per cento di chi frequenta le patrie galere, chi invece trova un’occupazione durante la detenzione, guarda un po’, ci ricasca, ma a percentuali invertite).

Forse sarà per questo che il decreto, finalmente, ha visto la luce. Ma sul contenuto gran parte degli operatori ha mostrato scetticismo. In sostanza il provvedimento prevede procedure più snelle per accedere alle uscite anticipate (quelle previste dalla legge, solo che attualmente gli uffici dei magistrati di sorveglianza sono assediate di pratiche che già in partenza non si possono evadere, per cui serviva una razionalizzazione). E poi: l’assunzione di 1.000 agenti di polizia penitenziaria, più telefonate settimanali ai familiari e l’istituzione di un albo delle comunità che potranno farsi carico della detenzione domiciliare dei soggetti più fragili. Rispetto alla linea di fermezza finora portata avanti, Nordio ha parlato di «umanizzazione» del carcere.

Può darsi che questi provvedimenti contribuiscano a umanizzare i nostri istituti, ma due dati sono certi. Il primo è che gli effetti del decreto non saranno a breve termine, mentre per l’emergenza che si sta delineando servono interventi immediati; il secondo è che l’unico modo che possa umanizzare le nostre carceri è svuotarle. Attenzione, non stiamo parlando di aprire le porte e «liberi tutti». Per rendere le nostre celle più umane basterebbe anticipare di qualche giorno l’uscita di chi è a fine pena. C’è una proposta di legge che sarà discussa in Parlamento nei prossimi giorni, vedremo come andrà a finire, ma per come sono stati intesi, fino ad oggi, nei governi di destra come in quelli di sinistra, i tentativi di progettare in modo non ideologico politiche della pena concretamente deflattive, ci permettiamo di essere pessimisti.

Un’ultima considerazione: il sovraffollamento delle carceri non è il sintomo di una società più criminale rispetto al passato, ma è la conseguenza di un’asticella che si è pericolosamente spostata in senso repressivo, e aldilà della quale finisce perlopiù chi si trova già ai margini della società. Ed è curioso che sia la stessa mano da un lato a trovare il modo per riempire sempre più le celle (già piene), e dall’altro a trovare modalità, fino ad oggi decisamente poco efficaci, per renderle più vuote.

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