Celle chiuse per evitare di vedere il problema

ITALIA. La lettera di un gruppo di detenuti del carcere di Bergamo per chiedere, almeno nei giorni di festa, la riapertura delle celle nelle sezioni, accende un faro sulla preoccupante situazione di sovraffollamento di via Gleno (al 30 novembre 556 detenuti, 319 la capienza regolamentare) e, più in generale, dell’intero sistema penitenziario italiano.

Per capire che cosa stia succedendo occorre fare qualche passo indietro. Dieci anni fa - ministro della Giustizia era Annamaria Cancellieri, già prefetto a Bergamo - la Corte europea dei Diritti dell’uomo condannò l’Italia per il trattamento disumano dei detenuti. Era la celebre sentenza Torreggiani, che stabilì che i metri quadrati a disposizione per ciascun detenuto erano ben al di sotto della soglia tollerabile. Come porre rimedio? L’effetto dell’indulto del 2006(lo aveva chiesto con forza Papa Wojtyla) era già svanito e nel settembre del 2013 la popolazione carceraria aveva raggiunto il picco di 66mila detenuti.

Il programma di costruzione di nuovi padiglioni procedeva a rilento, così il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria promosse la sorveglianza dinamica, che in molte carceri, come quella di Bergamo, era già realtà nel settore femminile e in quello penale: si tratta dell’apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza per almeno otto ore al giorno e fino a un massimo di quattordici, con la conseguente possibilità dei detenuti stessi di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente anche al di fuori di essa. In questo modo lo spazio vitale di ogni detenuto non è più la cella, ma l’intera sezione (o addirittura l’intero istituto), fulcro, nelle intenzioni, delle attività trattamentali. Ma per portare avanti un progetto così ambizioso servivano spazi, risorse umane, fondi. Soprattutto, servivano e servono istituti non sovraffollati.

Un miraggio. Anche perché si sta andando esattamente nella direzione opposta. Un anno fa, il 30 novembre del 2022, i detenuti erano 56.524. A giugno di quest’anno erano 57.525. Al 30 novembre hanno superato la soglia dei 60mila (60.117) su 47mila posti disponibili (il sovraffollamento è del 126%). Non capitava da due anni e mezzo. Come ha detto in una recente intervista al Corriere della Sera il garante dei detenuti Carlo Palma, «non è il numero in sé che mi preoccupa , ma il ritmo di crescita. Con queste cifre si raggiungeranno presto livelli di sovraffollamento difficilmente sostenibili». E che l’affollamento crescente delle celle sia più un frutto di una precisa politica di inasprimento delle pene (basta dare un’occhiata all’ultimo ddl sicurezza per capire che provvedimenti deflattivi della popolazione carceraria non sono all’ordine del giorno di questo governo) e meno la conseguenza naturale di una società soggiogata dal crimine, lo dicono i numeri.

Negli ultimi dieci anni in Italia – rileva il Censis – sono diminuiti drasticamente i crimini più efferati: gli omicidi volontari sono calati del 42%, le rapine sono diminuite del 48,2%, i furti nelle abitazioni del 47,5%, i furti di autoveicoli del 43,7%. In compenso, a fine ottobre 1.486 detenuti avevano una condanna inferiore a un anno e 2.926 inferiore a due anni. «Per loro il carcere non può fare niente, perché in un periodo così breve nessun percorso educativo o di socializzazione è possibile. Sono vite a perdere» ha detto ancora De Palma. La revoca della sorveglianza dinamica, decisa perché stava diventando troppo difficile gestire sezioni aperte sempre più affollate con personale sotto organico, segue pericolosamente la logica di chiudere i problemi nel cassetto e buttare via la chiave. Con l’aggravante che i problemi sono esseri umani. Chissà che una sveglia possa arrivare, ancora una volta come dieci anni fa, da Strasburgo.

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