C’è fame di acciaio opportunità per l’Italia

Tra i grandi casi irrisolti - Alitalia, Autostrade, ex Ilva - degli anni dell’inerzia giallo rosso e verde di governo, quello di Acciaierie per l’Italia, il nuovo nome che segna il ritorno dello Stato a Taranto, potrebbe essere il più promettente, perché c’è una congiuntura mondiale che ha fame di acciaio, e grida vendetta che il più grande impianto d’Europa viaggi a scartamento ridotto. Il Governo ha già versato, tramite Arcuri, quello delle mascherine, 400 dei milioni che servono per il controllo, e soprattutto ha messo in campo una squadra di comando, guidata da Franco Bernabè, che migliore non potrebbe essere. Ma tutto è fermo in attesa di due sentenze: Consiglio di Stato (attesa giovedì scorso e rinviata) e Giudice penale.

Magistrati non certo da invidiare, che devono districarsi nei meandri di una delle questioni più difficili della modernità, che richiede competenze e sensibilità eroiche, perché su entrambi i versanti dello sviluppo e della salute le enfasi catastrofiche cancellano spesso la realtà dei numeri. Come può regolarsi un laureato in legge che ha vinto un concorso se l’Ad dell’acciaieria, la signora Morselli, prova che l’aria di Taranto è 20 volte migliore di quella di Milano e se il sindaco segnala invece mortalità anomale in alcuni quartieri? La disputa dura da decenni e occorre molto equilibrio per farsi un’idea nel ginepraio delle perizie.

Se si confermasse la sentenza del solito Tar che delibera e se ne lava le mani, si andrebbe alla chiusura totale, causa spegnimento dell’unico forno operativo di un impianto enorme, in cui finalmente cominciano a dare frutti grandi investimenti ambientali, ma che quest’anno, se tutto va bene, produrrà solo 3 milioni di tonnellate, meno di un terzo del minimo necessario e possibile. Taranto è una grande risorsa di un Paese che sembra però averne solo paura. Il grillismo voleva trasformarlo in un parco giochi e una recente ricerca di Eurispes afferma che con 30 anni di lavoro il mostro potrebbe essere cancellato, ma con quali costi? E comunque l’Italia ha fame di acciaio che cerca ovunque, perché non a Taranto?

Il ritorno del pubblico è di per sé una sconfitta, ma Bernabè ha le capacità di restituire allo Stato l’onore perduto nell’ultimo decennio, cioè da quando ha espropriato i privati, poi fatto il gioco degli indiani, più interessati a non avere concorrenti che a sviluppare il business, e ai quali il Di Maio in versione non ancora dorotea ha regalato l’alibi per chiamarsi fuori.

Per questo, il caso ex Ilva non entusiasma perché è un passo indietro statalistico, ma almeno avrebbe un futuro, certo più del parallelo spreco Alitalia, che chiede ancora soldi per pagare stipendi a fine mese, dopo 15 miliardi buttati e un mercato totalmente da ripensare. O del caso Aspi/Atlantia, azienda di dimensione internazionale a cui lo Stato nega la possibilità di fare un piano economico finanziario se gli azionisti non se ne vanno (ben pagati, peraltro, con buona pace di Toninelli). Cose ideologiche in un’economia di mercato e in uno stato di diritto, dove le responsabilità penali sono una cosa e la gestione imprenditoriale un’altra. Acciaierie per l’Italia deve poter tornare ad essere il magazzino di retrovia di un’industria che non ha da star allegra se dovrà bussare alla porta dei turchi, degli indiani o dei cinesi. Nel triennio pre Covid abbiamo già perso, causa acciaio in difficoltà, l’1,35% del Pil e 10 miliardi di export.

Dunque, Draghi - non sperabilmente i giudici - decida la svolta, facendo uscire l’acciaio da questa agonia e profittando del fatto che proprio il Recovery sembra fatto apposta per creare un’occasione imperdibile. Al nuovo management va dato il tempo di reimpostare il futuro, senza dover schivare le bombe della magistratura in assetto di guerra. Poi chiami pure «verde» l’acciaio, in vista del dopodomani dell’idrogeno, ma senza il fiato sul collo delle utopie.

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