L'Editoriale
Venerdì 06 Dicembre 2024
Caso Francia, democrazia è il governo di chi vince
MONDO. Per quanta antipatia si possa provare per il sovranismo di Marine Le Pen, per quanto scetticismo possa destare la retorica sinistrorsa di Jean-Luc Mélenchon, la morale di questa crisi francese è una sola, e non è nemmeno complicata: in democrazia deve governare chi vince le elezioni.
Per quanta antipatia si possa provare per il sovranismo di Marine Le Pen, per quanto scetticismo possa destare la retorica sinistrorsa di Jean-Luc Mélenchon, la morale di questa crisi francese è una sola, e non è nemmeno complicata: in democrazia deve governare chi vince le elezioni. Punto. Il piccolo Bonaparte Macron ha preteso di fare il contrario. Alle elezioni legislative del luglio scorso, il partito più votato era stato il Rassemblement National della Le Pen e la coalizione con il maggior numero di seggi il Nuovo fronte popolare guidato da Mélenchon. Macron, che già aveva salvato il suo partito accettando di mutilarlo di oltre 100 deputati pur di stipulare accordi di desistenza che favorissero i partiti di Governo, ha preteso di fare il contrario: un’alleanza degli sconfitti e un Governo di minoranza affidato a Michel Barnier, per di più incaricato di promuovere una manovra economica di quelle che si definiscono «lacrime e sangue», piena di tagli e sacrifici. Perché i partiti usciti vincitori dalle elezioni e poi esclusi dalla guida del Paese avrebbero dovuto intestarsi un passo così impopolare?
Il non detto di questa assurda situazione, poi, è che al momento di eleggere il Parlamento (sciolto dal presidente dopo il deludente risultato delle Europee), i francesi hanno mostrato un solo sentimento davvero preciso: da destra come da sinistra, il rifiuto per Macron, le sue politiche, la sua personalità, il suo modo di guidare la Francia. Un malessere che veniva da lontano (ricordate, sei anni fa, le prime manifestazioni dei gilet gialli al rincaro dei carburanti per spingere la transizione energetica?) e che in quella tornata elettorale ha trovato il modo di esprimersi. Sfiduciato dalla maggioranza dei francesi, Macron poteva tentare la via del compromesso, cercando di concordare un Governo ragionevole con Le Pen o Mélenchon (e accettando quindi di ridimensionarsi), oppure trarre la conclusione più evidente e dolorosa, la fine del macronismo, e andarsene. Nessun compromesso e nessuna resa, è stata la risposta di Macron. Che così ha messo la propria sopravvivenza al potere prima degli interessi della Francia, che non potrà andare a votare prima del luglio prossimo ed è quindi consegnata ad altri otto mesi di confusione istituzionale e quindi anche sociale.
il declino della vecchia Unione europea, dei grandi Paesi fondatori, reso ancor più chiaro dal fatto che a dirigere la politica estera europea sia ora chiamata Kaja Kallas, già primo ministro dell’Estonia che ha 1,4 milioni di abitanti
Nuovi colpi di scena?
Conoscendo l’uomo, dobbiamo aspettarci da Macron qualche nuovo colpo di scena. Si parla di Francois Bayrou, più volte ministro e leader del Movimento Democratico (MoDem), come successore di Barnier. Ma MoDem era partecipe di Ensemble, la coalizione macroniana delle ultime elezioni, dunque si tornerebbe a un Governo di minoranza, per tirare fino al luglio 2025 con tutte le incognite del caso. A meno che nel frattempo Macron non sia riuscito ad arruolare qualche pezzo delle altre coalizioni, per esempio i socialisti finora alleati di Mélenchon. C’è sempre, poi, l’ultima ipotesi, l’«arma nucleare» del presidenzialismo francese: attivare l’articolo 16 della Costituzione, che assegna al presidente poteri straordinari da utilizzare in situazioni di emergenza, quando siano minacciate le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza nazionale, l’integrità territoriale o l’esecuzione degli obblighi internazionali, e quando il normale funzionamento dei poteri costituzionali sia interrotto. Operazione complicata, che permetterebbe però a Macron (al secondo mandato, quindi non più eleggibile e libero da responsabilità) di governare senza il Parlamento.
Vedremo l’evolversi di questa crisi francese, che non può non essere paragonata a quella, imminente, della Germania, anch’essa avviata a elezioni anticipate e alla probabile uscita di scena del cancelliere Scholz. Anche dalle parti di Berlino si cercano le misure istituzionali per impedire alla marea montante della destra di arrivare a posizioni di Governo. Operazione politicamente legittima, anzi saggia. Che rischia però di esacerbare un elettorato già frustrato e deluso per la triste congiuntura economica.
È il declino della vecchia Unione europea, dei grandi Paesi fondatori, reso ancor più chiaro dal fatto che a dirigere la politica estera europea sia ora chiamata Kaja Kallas, già primo ministro dell’Estonia che ha 1,4 milioni di abitanti. Il conto avvelenato ma inevitabile del cambiamento radicale impresso alla politica continentale dalla guerra in Ucraina.
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