Carrara, riservato e umile: un grande direttore

IL RITRATTO. Schivo, riservato, timido, umilissimo. «Gino» Carrara - in redazione Luigi non l’ha mai chiamato nessuno - era così, sempre un passo indietro rispetto ai riflettori, sempre davanti a tutti rispetto alla notizia, a come leggerla, a come interpretarla.

Perché la sensibilità del «suo» lettore ce l’aveva nel sangue, ce l’aveva tra le dita, quando scriveva sulla sua pesantissima «Olivetti», con gli occhi e gli occhiali attaccati al foglio, alla luce di una piccola lampada da scrivania, perché la vista era quella che era.
Lo sapeva bene pure lui che i tempi stavano cambiando, anche quando ritoccava con il «trattopen nero punta fine» qualche scollatura un po’ troppo audace o una minigonna eccessivamente «mini», ma sapeva altrettanto bene che la stragrande maggioranza dei bergamaschi di quei tempi non avrebbe gradito trovare sul «giornale di casa» (perché all’epoca «L’Eco» entrava davvero in ogni casa di Bergamo e provincia) immagini troppo realistiche. Certo, nulla al confronto di cosa si pubblica oggi sui giornali o in rete, ma quel «tratto d’artista», a volte invisibile anche a chi gli lavorava a fianco talmente era perfetto, nascondeva un insegnamento profondamente cristiano, quello cioè che, prima di tutto, bisognava rispettare la dignità del protagonista del racconto, specie se non particolarmente edificante, oltre che, naturalmente, la sensibilità del lettore e del sentire comune. Non si trattava di raccontar bugie: si doveva scrivere la verità, sempre e comunque, avendo però come imprescindibile punto di partenza la salvaguardia del decoro di tutti e di ciascuno.

Molti anni fa, quando ancora ero un giovane collaboratore, «il Carrara» (era difficile un po’ per tutti chiamarlo «direttore», per il fatto che la presenza di monsignor Spada aleggiava sempiternamente, e a volte c’era qualche fraintendimento) mi mandò in un paese alle porte di Bergamo per seguire da vicino un illustre ospite e una serie di manifestazioni che per due giorni avrebbero animato quella comunità. Tra le tante iniziative ci fu anche una Messa - affollatissima - dove si pregò per un ragazzino (di cui venne fatto nome e cognome) le cui condizioni di salute erano estremamente compromesse. Poco prima della funzione, il piccolo malato ricevette in casa una delegazione del paese e l’importante ospite, con cui s’intrattenne per una decina di minuti in tutta serenità, scattando con lui anche qualche fotografia. La cronaca fu puntuale e ricca di particolari. «Ottimo lavoro - mi disse Carrara il giorno successivo - ma…». C’era un ma: «Hai raccontato tutto di quel povero ragazzo, con grande scrupolo, riportando con precisione quanto è stato detto e fatto in paese per lui, ma non ti sei chiesto se lui conosca il suo reale stato di salute e se sarebbe stato contento di leggerlo sul giornale…». Abbozzai una risposta, ma mi resi subito conto che di frecce nel mio arco non ce n’erano, e battei in ritirata con la coda tra le gambe. Fu il primo di molti insegnamenti (i suoi, quelli di Renato Possenti e di mons. Andrea Spada), senza i quali oggi non siederei alla «sua» scrivania.

L’attenzione che dedicava al giornale e alle «curve» da rispettare era scrupolosissima, niente veniva lasciato al caso e ogni parola, ogni titolo, veniva soppesato con grande attenzione. Certo, non era facile riuscire a parlare con «il Carrara», perché i suoi orari di redazione erano un po’ sfasati rispetto a quelli canonici dell’epoca. Al giornale arrivava - rigorosamente in bicicletta, da Nembro e con qualsiasi tempo (a nulla valevano i ripetuti inviti dei vertici aziendali a servirsi dell’autista del giornale) - attorno alle 20.30, per tuffarsi a capofitto nel lavoro fino alle 3 del mattino. E così era più facile scambiare due battute proprio a quell’ora, quando il giornale era appena andato in stampa e si aspettava che dalla rotativa spuntassero le prime copie per dare un’occhiata. Ma già a quell’ora ti aiutava a imbastire il lavoro delle ore successive, ricordandoti questo e quell’avvenimento e, soprattutto, raccontandoti quello che si nascondeva dietro all’ovvietà dell’apparenza.

Insomma quello che si passava con lui era tempo prezioso, speso bene, anche se dovevi fare l’alba. Perché il «Gino» era un direttore «operaio», nel senso più nobile del termine: si sporcava le mani come e più degli altri, in redazione e in tipografia, quando ancora la tipografia - fatta da un manipolo di tecnici appassionati, bergamaschi fino al midollo - era un affascinante luogo da cui imparavi davvero a stare al mondo, non soltanto a fare il giornale. E ad essere sincero, anche se questo modo di fare gli procurava più di una critica, a me piaceva moltissimo, perché gli dava un’autorevolezza schietta e sincera: non parlava mai a sproposito e sapeva di quel che parlava, virtù assai rara anche oggi. Il rispetto per il prossimo era una regola di vita a cui non si sottraeva mai, a costo di apparire anacronistico e fuori dal tempo. Quando mi nominarono direttore, mi scrisse una sincera lettera di auguri, alternando il «tu» che mi aveva sempre dato, fin dal lontano 1980, al «lei» che - diceva - spettava al direttore, ma quando lo chiamai al telefono per ringraziarlo fu irremovibile: «Buon giorno, signor direttore», e da lì non si schiodò mai, a meno che anch’io gli dessi del «tu», cosa per me impensabile. Lo sentivo per Natale e per Pasqua, ed era sempre molto affettuoso, contento che mi ricordassi ancora di lui. Negli ultimi mesi era diventato irraggiungibile, piegato dalla malattia non voleva farsi né vedere né sentire, ma ha sempre ricambiato gli auguri che in un modo o nell’altro riuscivo a fargli avere, promettendomi che mi avrebbe chiamato. Sapevo che - per pudore - non l’avrebbe mai fatto, e così è stato.

Ha sempre lavorato nell’ombra, sapendo di avere davanti a sé quella, un po’ ingombrante, di monsignor Spada, ma non se ne lamentò mai. Ha servito il giornale con infinita passione e incondizionato amore, e se oggi «L’Eco» gode ancora di grande prestigio, dentro e fuori Bergamo e la Bergamasca, lo si deve anche ai sacrifici e alla bravura «del» Carrara, «operaio» fin che si vuole, ma un Signor Direttore. Le sia lieve la terra, carissimo «Gino». E grazie di tutto.

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