Caro vita, lo stop è un imperativo

ECONOMIA. La Bce ha aumentato i tassi di interesse dello 0,25%, meno dello 0,50% che molti prevedevano, portando il costo del denaro per le banche al 4%. La presidente Lagarde ha detto che «c’è ancora della strada da fare», lasciando intendere che potrebbero esserci nuovi aumenti da qui a fine anno.

La motivazione è che l’inflazione è sì diminuita dalla precedente riunione del Consiglio dei governatori, passando dall’8,6% al 6,9%, ma rimane ancora troppo alta e dura troppo a lungo, soprattutto in Italia dove supera ancora l’8%. L’obiettivo finale rimane il 2%, il livello di inflazione che da sempre la Bce considera ottimale perché favorisce una crescita economica equilibrata senza svalutazione della moneta. Non va sottaciuto, anche se la stampa ne parla meno, che insieme a questa decisione, la Banca centrale europea ha stabilito di ridurre ulteriormente l’acquisto di titoli di Stato sul mercato, manovra che concorre a ridurre la liquidità in circolazione e quindi corrobora l’azione dell’aumento dei tassi di interesse.

La scelta di Francoforte appare il frutto di un difficile bilanciamento fra il contrasto alla crescita dei prezzi e la stabilità del sistema bancario. Gli effetti della restrizione monetaria sono ormai tangibili, come evidenzia il recente rapporto sulla domanda e offerta di credito (Bank Lending Survey) che mostra una marcata restrizione della richiesta e della concessione di nuovi prestiti. Questo contribuisce a raffreddare l’economia e allenta la pressione inflazionistica. Fortunatamente l’occupazione non ne risente e infatti si registrano dati molto positivi sia in Europa che in Italia. Ciò incoraggia l’orientamento antinflazionistico perché consente di attenuare il caro vita, che colpisce le famiglie e le imprese, senza generare un effetto negativo in termini di posti di lavoro.

Venendo alle banche, l’aumento dei tassi ha effetti variegati. Nel medio periodo aumenta gli utili, perché il margine di interesse torna ad aumentare, ma nel breve termine comporta la svalutazione dei titoli a reddito fisso in portafoglio (e le banche italiane hanno circa 400 miliardi di Btp). Il pensiero va all’americana Silicon Valley Bank, fallita perché ha dovuto svendere i titoli per fronteggiare una crisi di liquidità, ma fortunatamente quello è un caso estremo per tanti aspetti e non rappresenta la condizione delle banche europee e italiane. Comunque la svalutazione dei titoli è una potenziale vulnerabilità per il sistema creditizio, che potrebbe innescare nuovamente il legame fra rischio sovrano e rischio bancario che abbiamo visto all’inizio del decennio scorso. Forse la Bce ha moderato il suo intervento contro l’inflazione per non alimentare timori su questo fronte che, ove si sorgessero, sarebbero difficili da controllare.

La manovra della Bce non sarà accolta favorevolmente dai media e dall’opinione pubblica, perché gli effetti sfavorevoli appaiono in modo più evidente e immediato rispetto ai danni che l’inflazione, più perniciosa, produce in maniera meno appariscente e più diluita nel tempo. Ma sarà bene rammentare ancora una volta che la svalutazione della moneta colpisce soprattutto i deboli, i percettori di reddito fisso, i pensionati, chi ha qualche risparmio investito in titoli di Stato. Certo, rende più costosi anche i mutui delle famiglie e delle piccole imprese ma questi almeno, a fronte di interessi più alti, hanno il vantaggio di restituire moneta svalutata. Dobbiamo convincerci che l’inflazione è il peggiore fra tutti i mali economici e quindi il suo contrasto deve essere un imperativo. A vantaggio di tutti.

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