Capitalismo e democrazia, l’equilibrio in crisi

MONDO. Anziché inseguire sempre le piccole miserie della cronaca politica e anche di quella economica, ogni tanto è bene occuparsi delle grandi questioni della società nella sua rapida evoluzione.

Prendiamo un tema non da poco, nell’Occidente di oggi, il rapporto tra capitalismo e democrazia. In una visione dall’alto, anche guerre, migrazioni, scontri etnici e religiosi, possono essere meglio interpretati, e capire è il primo passo per risolvere. Ci aiuta un libro uscito da pochi giorni per Einaudi («La crisi del capitalismo democratico») di Martin Wolf, codirettore del «Financial Times», che ne ha discusso su «La lettura» con Maurizio Ferrera, sociologo liberale, editorialista del Corriere. Capitalismo e democrazia sono il pilastro del sistema occidentale, ma non sono obbligati ad andare d’accordo, nonostante tanti punti in comune, tanto più se le dinamiche interne di una delle due componenti, il capitalismo, lo trasformano fortemente. Non a caso il titolo della conversazione tra Wolf e Ferrera è «il capitalismo dei predatori».

In pochi decenni è andato in crisi l’equilibrio di un sistema che dentro la democrazia liberale ha dato grandi risultati concreti, misurabili in termini di welfare, crescita e soprattutto pace (pensiamo all’Europa per la prima volta senza guerre). Il dinamismo capitalista ha dato il suo meglio, lasciandosi guidare («addomesticare» dice Ferrera) dalle regole democratiche, che hanno tratto grandi energie, e anche ricchezze da distribuire, dai delicati meccanismi a doppia valenza della competizione e della concorrenza. Nella sua evoluzione, però, il capitalismo ha cambiato faccia e sostanza, fino al punto di minacciare la virtuosità dell’economia di mercato, soprattutto agli occhi delle grandi masse, già deluse dal fallimento del socialismo reale e anche dagli insuccessi delle socialdemocrazie. È accaduto infatti, sottolinea Martin Wolf, che dell’economia di mercato sono state percepite solo le crescenti diseguaglianze, erodendo «le basi sociali della democrazia» e determinando frustrazione e risentimento, brodo di cultura del populismo egoista, anticamera a sua volta delle involuzioni autoritarie. Insomma, il rischio è oggi quello di una democrazia degradata, non accettabile dai ceti in difficoltà, nella quale prosperano monopoli tecnologici interessati non al governo equilibrato della comunità, ma all’estrazione di rendite che a loro volta generano nuove diseguaglianze e nuove dipendenze.

Sarebbe così sempre meno praticabile la parte virtuosa della democrazia liberale, quella dei diritti, delle regole, dell’antitrust, del rispetto del ruolo individuale, dell’attenzione al bene comune, della capacità educativa di distinguere tra notizie buone e «fake». Usa e in Europa sono teatro della prima colossale campagna elettorale eterodiretta dagli algoritmi, dall’intelligenza artificiale. Come rimediare a questo panorama allarmante, con un capitalismo predatorio che si divora gli anticorpi democratici e prevale secondo le tendenze già tanto diffuse delle democrature e dei regimi illiberali? Non certo arretrando verso la nostalgia del passato, la mistica delle lotte di classe e tanto meno l’illusione dei sovranismi, una vera e propria trappola regressiva. Il parere di Ferrera e Wolf è rivolto alla dimensione internazionale, mondiale del problema, usando la democrazia per la decisiva battaglia antipopulista da vincere negli Usa, e con la Cina vero, grande terreno per misurare i nuovi equilibri da assegnare. Bisogna puntare, secondo Ferrera, sui nuovi ceti emergenti cinesi, prima o poi incompatibili col partito unico per la riproposizione della «borghesia» che vinse in Europa la battaglia dei diritti, della partecipazione, della libertà plasmando il capitalismo del benessere.

E bisogna credere nel ruolo dell’Europa, che ha immense potenzialità. In un orizzonte che fa tremare i polsi, l’Europa ha bisogno di leader e statisti, non di follower da collezionare. E naturalmente di un’opinione pubblica che si appassioni meno alle deformazioni di generali in cerca di truppe obbedienti, e più al futuro dei giovani, che peraltro costituiscono una riserva di indipendenza e lucidità di giudizio in cui dobbiamo credere.

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