Borrell e le armi, un azzardo per l’Europa

MONDO. Josep Borrell sta per lasciare la carica di Alto rappresentante per la politica estera e di difesa della Ue. E come succede in casi analoghi, deve aver deciso che fosse il momento di togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

Nel suo caso, sassi, più che sassolini. Ha cominciato spostando a Bruxelles la riunione esteri-difesa di questo periodo, che di solito si tiene nel Paese che ha la presidenza di turno. Ma si tratta dell’Ungheria, governata da quel Viktor Orban che, con la «missione di pace» non concordata che lo ha portato a Mosca, Kiev e Pechino (e poi a Washington per il vertice Nato), ha fatto infuriare Borrell e molti altri. Poi Borrell si è esercitato sul Medio Oriente, tema su cui da tempo ha posizioni assai diverse da quelle della presidente Von der Leyen. Ha denunciato la tendenza del Governo di Israele a calpestare il diritto umanitario e «la preoccupante intenzione di spostare la popolazione in Cisgiordania come già fatto a Gaza», quindi accusando Netanyahu di praticare con le armi una specie di deportazione di massa.

Infine il piatto forte: l’Ucraina. Borrell si è presentato in conferenza stampa con il ministro degli Esteri ucraino Kuleba, per permettere a lui di accusare la Ue per i ritardi nella fornitura di armi (soprattutto i sistemi di difesa antiaerea) e a sé stesso di fare due annunci. Il primo, sulla volontà di portare il tema dei ritardi all’attenzione dei Governi europei. Il secondo, sulla necessità che i suddetti Governi eliminino ogni restrizione sull’uso delle armi fornite all’Ucraina, affinché possano essere utilizzate «per colpire obiettivi militari in Russia in linea con le regole internazionali».

Questa seconda affermazione ha fatto sensazione, e per buone ragioni. Intanto, Borrell prova ad allineare la Ue ai Paesi più intransigenti nella politica di contrasto al Cremlino. Regno Unito, Polonia, Francia, Paesi baltici, Svezia, Olanda e Germania, chi più chi meno esplicitamente, hanno già autorizzato l’uso sul territorio russo delle loro armi. Il che, è inutile nasconderlo, fa fare alla Ue un altro passo verso un maggiore coinvolgimento nel conflitto. Secondo, la definizione «obiettivi militari» (e Borrell lo sa) è quanto di più ambiguo esista. Una raffineria di petrolio dove lavorano civili, ma che rifornisce il ministero della Difesa russo, è un obiettivo militare o civile? Nei giorni scorsi i russi hanno bombardato una scuola e un albergo nel Donbass, dicendo che ospitavano mercenari stranieri: obiettivi civili o militari? Gli esempi sono infiniti. E sul tema va registrato il dissenso non solo dell’Ungheria (il ministro degli Esteri Péter Szijjártó ha definito quelle di Borrell «proposte sconsiderate») ma anche dell’Italia: «L’uso delle armi italiane può avvenire solo all’interno dell’Ucraina», ha ribadito Tajani. Terza ragione: con questa presa di posizione, di fatto, Borrell ribadisce che la linea non è quella di favorire una trattativa ma di perseguire la vittoria militare ucraina sul campo. O almeno di volerla come precondizione per qualunque negoziato. Ed è qui che le cose si fanno complicate.

Intanto, le parole di Borrell confermano che una qualche forma di pianificazione comune tra Ucraina e alleati occidentali dev’esserci stata nell’assalto alla regione di Kursk. L’idea è che avanzando il fronte e minacciando più da vicino le basi russe, la pressione nel Donbass si sarebbe alleviata. In realtà succede l’opposto: i russi avanzano da settimane nel Donbass mentre gli ucraini hanno bloccato le loro truppe migliori in un migliaio di chilometri quadrati di una regione trenta volte più vasta. Quando il generale ucraino Syrsky dichiara di controllare 100 centri abitati, non dice che la regione ha più di 1.100.000 abitanti e dieci centri qualificati come città e che l’unico di questi controllato dalle sue truppe è Sudzha, che di abitanti ne ha 7mila.

L’umiliazione per il Cremlino resta ed è evidente. Ma dal punto di vista strategico, l’eventuale conquista di Pokrovsk, 60mila abitanti, nel Donbass da parte dei russi sembra avere un altro peso. Questa, però, è la disputa che va avanti da quasi tre anni, tra coloro che pensano «prima il cessate il fuoco e poi una giusta pace» e coloro che, come Borrell, pensano «prima la vittoria militare e poi una giusta pace». Manca la controprova che i primi abbiano ragione. Ma chi può sostenere, oggi, che l’abbiano i secondi?

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