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L'Editoriale / Bergamo Città
Giovedì 25 Luglio 2019
Boris, il duro della Brexit
tra successi e spacconerie
Sentivate la mancanza di un leader irruente, presuntuoso, nazionalista, conservatore, populista, arruffone e capace di svolte improvvise? Uno di cui Donald Trump potesse dire con orgoglio: «È bravo, mi somiglia»? Allora potete stare tranquilli. Da poche ore, infatti, Alexander Boris de Pfeffel Johnson, 55 anni, ha vinto la corsa al controllo del Partito conservatore contro
il rivale Jeremy Hunt, attuale ministro degli Esteri, ed è diventato il nuovo primo ministro del Regno Unito.
Poiché si affanna da diversi anni per arrivare in quella posizione, di Johnson ormai si sa tutto o quasi. La nascita a New York (strepitosa l’intervista in cui, alludendo alla doppia cittadinanza inglese e americana, disse: «In teoria potrei diventare presidente degli Stati Uniti»), gli studi a Eton e Oxford, la carriera giornalistica, il doppio mandato (dal 2008 al 2016) come sindaco di Londra, la bulimia nelle relazioni personali e coniugali, il numero imprecisato di figli. Da ultima la passione per la Brexit, su cui ha costruito l’ultimo e più clamoroso passo della carriera politica. Appena messo piede nelle mitica residenza di Downing Street, Johnson si è affrettato a promettere l’uscita dalla Comunità europea per il 31 ottobre, «senza se e senza ma», insieme con il congelamento dell’indennizzo da 39 miliardi che il Regno Unito deve alla Ue e alla cancellazione di qualunque clausola di backstop (il divieto di costruire un confine fisico tra Irlanda e Irlanda del Nord) che possa essere prevista negli accordi di uscita.
Inutile dire che la Ue da queste due orecchie non ci sente né ci vuole sentire. Una sfida, dunque. Cosa che, unita alle proposte economiche piuttosto audaci che il neo-premier ha avanzato negli ultimi tempi (taglio delle tasse sia per la fasce di reddito alte sia per quelle basse, diffusione delle connessioni a banda ultra-larga in tutto il Paese in pochissimi anni…), ha fatto correre più di un brivido lungo le schiene degli industriali e degli operatori finanziari del Regno Unito.Sembra il ritratto di uno sfasciacarrozze. O del «mentitore» (Le Monde), del «clown della regina» (Libération) o di colui che «comincerà a smentirsi domani stesso» (Der Spiegel), per citare solo alcuni degli appellativi quasi spregiativi che la stampa europea gli ha rivolto al momento dell’insediamento. Certo non sembra il premier che deve prendersi in spalla l’eredità di Theresa May, stritolata dall’enormità del compito, e la fatica di riunire un Paese che in tre anni non è riuscito a metabolizzare la Brexit che esso stesso ha voluto.
Ma Johnson sa essere pragmatico e, soprattutto, sa di non potersi alienare il sostegno di coloro che contano in un dispositivo economico tra i più potenti e brillanti d’Europa e che osservano certi pronostici (una Brexit dura porterebbe, secondo alcuni, a una riduzione del Pil inglese dell’8%) con viva preoccupazione. C’è un Johnson che sa trattare, quello che portò le Olimpiadi a Londra nel 2012 e ne fece un successo nazionale, quello che da sindaco varò una politica «green» di auto elettriche e piste ciclabili ancor oggi considerata un modello. È probabile che, con la Brexit, già si prepari a scendere a più miti consigli. È una previsione ma anche una speranza. L’Europa, se sarà ben guidata, troverà il modo di fargli qualche concessione, in modo che lui possa fare il duro e gli inglesi fare finta di credergli.
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