Bipolarismo sgangherato. Riformisti, tempi duri

IL COMMENTO. Se togliamo l’implosione del sodalizio Calenda-Renzi dalla sagra dei personalismi, se osserviamo la tendenza radical-movimentista di Elly Schlein come controversa reazione ideologica alla destra e se, sul lato opposto, scrutiamo le incerte prospettive di FI, la domanda è: quale futuro ha l’area riformista?

Per «riformista» non intendiamo una riedizione del vecchio centrismo o un’offerta semplicemente moderata, perché questo termine è sinonimo di conservatorismo: piuttosto una politica mite, l’arte del possibile e di un progresso senza avventure al buio, quella moderazione alla Mino Martinazzoli racchiusa nella definizione di «sentimento dell’anima», estranea alla logica amico-nemico. Collocazione desueta, un po’ da esuli in patria, oggi, che richiama compromesso e mediazione, ricerca di un largo consenso, sistema non opportunistico delle alleanze. In questo modo è stata costruita l’Italia repubblicana e c’è stata una sola occasione, in questi decenni, in cui lo schema è stato riproposto con successo: la stagione della concertazione sociale, nei primi anni ’90, e poi la corsa verso l’euro. Direzione politica e capacità di decisione, sfidando pure una certa impopolarità.

I mesi della pandemia avrebbero potuto essere un’opportunità per rinnovare tale patto solidaristico, ma l’iniziale unità d’intenti s’è poi dispersa nelle fratture del post Covid. I risultati elettorali di questi anni parlano di tempi duri per i riformisti e il tema se questo mondo abbia ancora un futuro si pone come problema aperto e scenario importante, sul quale nessuno ha la risposta pronta. I leader, si sa, vanno e vengono e la politica produce un sovraccarico di capipopolo che poi abbatte come birilli, piuttosto che idee convincenti, un progetto di società. I sondaggisti ci dicono che persiste una domanda di politica ragionevole ed equilibrata, ma la cifra elettorale premia la radicalizzazione, le domande forti e nette. Dobbiamo anche chiederci quanto lo spaesamento collettivo e la resa al radicalismo incidano sull’astensionismo, ormai a soglie allarmanti. Non si tratta però di un processo a una sola dimensione, perché il virtuosismo del territorio ci parla pur sempre di leadership che stanno accanto ai bisogni della gente: la figura del sindaco mantiene un profilo vigoroso, forte anche dell’elezione diretta, e quasi sempre succede che i primi cittadini siano espressione di una politica pragmatica e riformista e proprio per questo dentro un popolarismo diffuso.

Il quadro politico generale, tuttavia, indica che siamo caduti nella trappola della polarizzazione, che vuol dire contrapposizione frontale, attrazione verso i poli esclusivi, comunque sia la novità della rottura dello status quo. È una tendenza su scala occidentale e basta vedere quel che succede in America, è la malattia della democrazia, che in qualche misura il laboratorio Italia ha anticipato. Febbre da demagogia e populismo oltre la modica quantità, che deriva dalla distanza fra cittadini e politica. Un fenomeno di lunga durata, da qui in avanti destinato a non essere passeggero, il cui esordio coincide con la nascita della Seconda Repubblica. I sistemi elettorali non sono tutto, però il maggioritario ha accentuato un bipolarismo sgangherato e con l’elmetto. Con i partiti personali e padronali, s’è affermato il leaderismo estremo, il culto del capo che ha sostituito il rispetto per l’autorità quando la leadership era circondata da una comunità politica organizzata. La politica «cattiva» è stata messa contro la società «buona». Via le ideologie e i partiti di massa, sono rimaste poche idee, più attente agli umori che ai sentimenti dell’opinione pubblica. Forze politiche a tendenza oligarchica per un elettorato in caduta di fiducia e sempre più volatile, mentre la democrazia rappresentativa ha bisogno di un sistema vitale di partiti. Politica spettacolo, tra narcisismo e frivolezze da talk show, messaggi a bordo della giostra delle emozioni, ricerca del capro espiatorio, creazione di allarmismi ed emergenze per poi dire di saperli risolvere.

Manca la fatica di interpretare le correnti profonde che agitano la società, che rischia di frantumarsi in tante tribù. Scomposizione delle classi sociali, perdita di centralità esistenziale del lavoro, polverizzazione del ceto medio un tempo l’ala marciante della democrazia, elogio dell’individualismo asociale inteso come libertà dai vincoli, la vita come competizione, e non è un caso che l’economia sia diventata la disciplina dominante delle scienze sociali. È in atto un impoverimento dei mezzi di comunicazione e - utilizzando la bussola del filosofo Cacciari - «ha vinto il linguaggio dei social che prescinde da ogni analisi, critica, giudizio». I venerabili maestri del pensiero sono diventati, alla prova del narcisismo da tv, venerabili santoni e il declino dell’intellettuale umanista s’accoppia alla perdita del ruolo di guida dei media tradizionali.

Tutto questo degrado di costume non può che riflettersi sulla comunità politica, in un rapporto al ribasso che si alimenta a vicenda. Le linee di fondo, dunque, si rifugiano sulle estreme: si capisce così il disagio dei riformisti, che in prima battuta è crisi della rappresentanza politica, ma anche la necessità di ritrovare un loro spazio di manovra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA