Bilancio europeo
Il consenso da trovare

È un fallimento a Bruxelles il vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea. Si devono reperire le risorse di bilancio per il periodo 2021-2027 e il tempo stringe. Per i prossimi sette anni mancano all’appello 70 miliardi per effetto della Brexit. Il Nord Europa con l’aiuto dell’Austria non ci sta a spendere di più. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha proposto l’1,074% del Pil complessivo ma il parlamento europeo reclama l’1,30%, un’aggiunta di altri 230 miliardi. I contributori netti vogliono sconti e chiedono di ridurre le spese in agricoltura e nella coesione. Green economy, intelligenza artificiale, nuove tecnologie i settori dove per loro ha senso investire.

Chi usufruisce delle sovvenzioni al mondo contadino come la Francia si oppone e lo stesso dicasi per chi gode dei finanziamenti per aree depresse come l’Italia. Per soddisfare le richieste di tutti i contendenti non c’è che un modo: aumentare la dotazione di bilancio. Senonché gli ultimi dati demoscopici ci dicono che la paura maggiore di molti europei non è il mutamento climatico ma l’impoverimento e la perdita d’identità.

In Germania si registra in modo plastico. I capi di Stato e di governo devono rendere conto alle loro opinioni pubbliche e vendere ad un austriaco o danese una cessione dei versamenti tributari agli europei del sud o dell’est dei quali non si condivide la visione del mondo è dura per qualsiasi europeista animato dalle più pie intenzioni. Il capo del governo austriaco lo twitta direttamente: il nostro contributo non deve aumentare all’infinito. L’Europa era un mondo piatto dove il collante era la crescita e tutti potevano chiamarsi vincitori. Poi è arrivata la crisi del 2008 e tutti improvvisamente si sono sentiti vittime. A cominciare dagli Stati Uniti che con Trump hanno dismesso l’ordine internazionale da loro stessi creato. Le istituzioni internazionali, dall’Onu all’Organizzazione mondiale del commercio, danno volto al multilateralismo. L’Europa stessa ne è espressione. Agli anglosassoni, la Brexit insegna, va bene il libero mercato fin quando sono loro a condurre le danze. Quando gli americani hanno scoperto di aver perso la leadership hanno rovesciato il tavolo. Gran Bretagna e Stati Uniti sono Stati divisi al loro interno ma coesi, hanno un’identità nazionale ben marcata, hanno dominato il mondo, hanno anche litigato tra loro e si sono combattuti ma hanno la stessa lingua e impronta culturale cioè l’identità. Un lusso che l’Europa non può ancora permettersi.

Il desiderio di pace degli ultimi settant’anni non è bastato a cementare i popoli europei in un comune senso di appartenenza che non sia un tornaconto economico. Non vi è un’Europa sola ma quantomeno due: quella che ha vinto e quella che ha perso e continua a perdere. La frattura che si è creata nel mondo globalizzato si è ripercossa al suo interno. Sono divisioni che passano anche dentro i confini nazionali come i dati recenti sul divario nord e sud in Italia testimoniano. La sfida sta nel riportare queste oggettive diversità al di fuori della logica del singolo Stato perché chi ha perso lavoro è alleato del disoccupato e solidarizza con lui anche se si trova in Germania o in Francia. Questo spiega il dilemma che assilla in questi giorni i vertici europei: devono darsi un bilancio e non scontentare i propri elettorati. Il gruppo dei cosiddetti «frugali» Olanda, Danimarca, Svezia e Austria non si fida degli altri Paesi e guarda con simpatia alla Gran Bretagna e agli Usa. Il movimento tettonico della placca sovranista riceverà un’ulteriore spinta e sarebbe una vittoria per chi non vuole questa Europa. A quel punto il presidente americano potrebbe brindare con le bollicine della California.

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