Bielorussia e Cuba
L’impossibile
chiusura

Dopo 27 anni dall’ultimo grande scoppio di rabbia i cubani sono tornati a protestare nelle strade. La pandemia ha aggravato la già pesante crisi economica: la penuria di cibo e di medicine è diventata insostenibile. Dall’altra parte del mondo la Bielorussia ha vissuto mesi di dura repressione, seguita alle proteste di massa, a causa dei brogli alle presidenziali del 9 agosto 2020, dopo le quali Aleksandr Lukashenko è rimasto al suo posto. Cuba e Bielorussia. Due realtà geograficamente lontane, ma figlie della Guerra Fredda e della sua fine, che sono oggi imprigionate in nodi sociali difficili da sciogliere e da questioni geopolitiche di notevole spessore.

Il carattere illiberale, liberticida e anti-democratico dei loro regimi avvinghiati da decenni al potere, è bene evidenziarlo, è più che palese. Tralasciando le ragioni negli anni Cinquanta della rivoluzione sull’isola caraibica – precedentemente definita il «bordello d’America» -, il 1994 è un anno fondamentale.

Per la prima volta i cubani scesero allora nelle piazze a manifestare per il peggioramento verticale della qualità della vita. Il crollo dell’Urss aveva provocato la perdita da parte di L’Avana del Mercato comune dei Paesi comunisti (il Comecon), usato per aggirare l’embargo Usa. La cronica mancanza di energia e di petrolio in particolare segnò quell’epoca, a cui seguì un periodo di aperture.

Nello stesso anno, Aleksandr Lukashenko, presentatosi come il «paladino della lotta alla corruzione», ottenne il favore degli elettori, disorientati dal nuovo caotico mondo capitalista post sovietico. La Bielorussia con le sue industrie era stata una delle poche eccezioni alla paralisi dell’Urss.

Ambedue i regimi, che, per un certo lasso di tempo, sono stati popolari – proponendo modelli differenti rispetto a quanto esisteva prima della loro ascesa –, si reggono oggi su uno zoccolo duro di fasce minoritarie di popolazione, rappresentato da quanti hanno tanto da perdere in caso di cambiamento.

Dopo la fine del socialismo ai tropici, nel successivo naturale periodo di forte instabilità politico-sociale-economico, i fuoriusciti cubani di Miami non avrebbero più ostacoli per comprarsi in prima persona l’intera isola, mentre oggi lo fanno attraverso i loro parenti in patria. Come già osservato negli anni Novanta nell’ex Urss, intere generazioni si troverebbero fuori mercato.

In Bielorussia militari e uomini degli apparati della sicurezza non godrebbero più dei buoni salari che adesso percepiscono. Gli statali non sarebbero più sicuri del posto di lavoro con remunerazioni che li aiutano a sopravvivere.

Secondo rilevazioni Lukashenko può contare solo sul 20-25% dell’appoggio della società, mentre tra il 45 ed il 55% della popolazione gli è contro. Questa maggioranza, adesso silenziosa per non rischiare la pelle, preferisce sopportare o emigrare all’estero.

L’indottrinamento politico della società è l’altra caratteristica comune: a Cuba la si è ereditata dal periodo castrista, mentre in Bielorussia è stata reintrodotta nel 2000. L’informazione è imbavagliata. Nell’ultimo anno, ad esempio, Minsk ha lanciato una crociata contro i giornalisti, decine dei quali sono in galera.

Nel mondo globalizzato, però, l’epoca dei sistemi chiusi è tramontata. Internet è il maggior nemico di questi regimi e il riparo di quanti sono stanchi di ascoltare in tv dei successi inanellati dagli autocrati.

La geopolitica non aiuta il cambiamento. Anzi. Cuba ha gli Stati Uniti; la Bielorussia la Russia di Putin. L’Ue appare lontana. L’elemento esterno è fuori gioco e ha poche carte da giocare.

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