Biden, non è la gaffe a farci più paura

Si tratta o non si tratta? Alla domanda è appesa la sorte di molti ucraini, soldati o civili che siano. Dopo tanti colloqui riservati via computer, dovrebbero ripartire gli incontri di persona tra le delegazioni russa e ucraina, ospiti della Turchia. L’appuntamento segnala una reciproca volontà di non tagliare i ponti, al di là delle dichiarazioni intransigenti e dei propositi di vittoria totale che entrambe le parti diffondono. Su tale volontà, però, è piombata l’improvvida improvvisata di Joe Biden che, in coda al suo discorso dal Castello Reale di Varsavia e forse trascinato dalla simpatia del pubblico, ha definito Vladimir Putin «un dittatore e un macellaio che non può stare al suo posto».

Ai più è parso un accenno nemmeno larvato al proposito di favorire un cambio di regime a Mosca, con le inevitabili conseguenze: per ottenerlo, cercare di prolungare la guerra per fare dell’Ucraina il Vietnam del Cremlino, o l’Afghanistan della Russia post-sovietica. È riapparso, insomma, il vecchio Biden dell’era Obama, quando più che un vice-presidente era considerato un micidiale produttore di gaffe. Tutti i portavoce si sono subito spesi per ridimensionare l’affermazione, ed è intervenuto persino il segretario di Stato Blinken per dire che non c’è alcun progetto americano di «regime change» a Mosca.

A Putin avverrà quel che deve avvenire, difficile che gli americani possano decidere del suo destino. Come europei, dovremmo forse preoccuparci di più per altre due affermazioni del Presidente americano. La prima è che gli Usa hanno finora fornito all’Ucraina armi per un miliardo e 350 milioni di dollari. Il punto non è che le abbiano date agli ucraini aggrediti. Vorremmo sapere, però, perché in un quadro simile, cioè in un mondo e in un’Alleanza Atlantica che rigurgitano di armi, dovremmo noi europei metterci a comprarne altre. Per esempio l’Italia, che è membro della Nato, ospita sul proprio territorio diverse decine di bombe atomiche americane e che ancora, a quanto pare, non si sente sicura.

L’altra affermazione da meditare di Biden è quella che riguarda le sanzioni, quando ha detto che «il rublo è ridotto in macerie» o che «l’economia russa sarà dimezzata nei prossimi anni». È chiaro che le sanzioni, e quelle imposte alla Russia sono ormai quasi 6 mila, sono l’unico strumento di pressione prima di una guerra aperta che nessuno vuole. Ed è altrettanto chiaro che si vorrebbe vederle funzionare. Ma l’obiettivo dovrebbe essere fermare la guerra, o far cambiare idea a Putin. Una Russia collassata e immiserita, abbandonata dalle risorse umane migliori (altro dato, reale, cui ha fatto cenno Biden) ma piena di materie prime e di armi nucleari, potrebbe essere persino più pericolosa di quella attuale. Soprattutto per l’Europa. Davanti a questa prospettiva riesce difficile condividere la soddisfazione del Presidente Usa. Ed è un po’ meno facile credere che l’obiettivo vero di Washington non sia tanto salvare gli ucraini dall’imperialismo russo ma sbarazzarsi una volta per sempre della Russia per regolare infine i conti testa a testa con la Cina. Ci sarà una ragione se Pechino, che ha con l’Occidente un fatturato commerciale dieci volte più ampio di quello con Mosca, non si decide a mollare al suo destino un Cremlino pure lanciato in un’impresa che la Cina giudica sconsiderata.

Intanto sul campo proseguono gli scontri e le battaglie, invece di attenuarsi, diventano più aspre. Da molti giorni viene pronosticato il collasso della spedizione russa e si confonde qualche successo locale dell’uno o dell’altro con la realtà generale, che è di stallo. Per allentare la pressione su Kiev gli ucraini hanno abbandonato al suo destino Mariupol’, il grande porto difeso soprattutto dagli irriducibili dell’ultra-nazionalismo di destra. E viene persino da chiedersi se non ci sia, nella direzione strategica di Zelensky, anche il proposito di liberarsi dei condizionamenti dei fascisti del battaglione Azov e dei loro camerati.

L’insidia, con tutto il rispetto e il dolore per chi muore sul campo o nei palazzi bombardati, viene da quanto prospettato da Leonid Pasechnik, presidente della Repubblica filorussa di Lugansk, nel Donbass, ovvero di tenere un referendum per l’adesione alla Federazione russa. Idea che potrebbe celare il vero proposito di Mosca: prendersi il meglio, dal punto di vista economico, dell’Ucraina e per il resto lasciare macerie.

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