L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 22 Maggio 2022
Berlusconi e la Russia, Forza Italia
rumoreggia
Nella prima guerra fredda, nata dopo il secondo conflitto mondiale e gli accordi di Yalta, le posizioni dei partiti politici italiani erano abbastanza nette. Da una parte quelli filo atlantisti (in prima fila la Democrazia Cristiana), dall’altra quelli filo sovietici (con il Pci egemone), anche se poi il realismo di Togliatti e dei suoi successori avrebbe portato a una progressiva indipendenza dal Cremlino, fino allo strappo di Berlinguer e Natta. Ma in generale i campi erano abbastanza netti.
Oggi, con questa seconda guerra fredda scoppiata in Europa, assistiamo a una sorta di campo di Agramante, in cui la confusione è piuttosto alta sotto il cielo del Parlamento. Ci si schiera un po’ di qua e un po’ di là, a seconda delle convenienze, dei social e della giornata, anche all’interno della stessa formazione.
In questi giorni abbiamo assistito a diversi segnali di questa confusione con imprevedibili dichiarazioni che ponevano i programmi politici dentro e fuori le nostre aspettative, non diciamo politiche ma addirittura ideologiche. Il Partito Democratico ad esempio, nonostante una parte della sua base elettorale sia certamente pacifista, sposa completamente la linea di Draghi, che è quella di invio di armi e difesa dell’Ucraina senza se e senza ma, accompagnata però a un piano di pace di «diplomazia armata». Draghi infatti si è fatto promotore di un «telefono rosso» tra Washington e Mosca e ha messo in campo attraverso il ministro degli Esteri Di Maio, uno degli esponenti più potenti dei Cinque Stelle, un piano diplomatico di pace in quattro tappe, che va dal cessate il fuoco a un accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza in Europa, fino a una Ucraina dentro l’Europa ma fuori dalla Nato come l’Austria. Ma tra i Cinque Stelle non tutti la pensano come il premier e il suo ministro degli Esteri. Il suo leader Giuseppe Conte infatti è contrario all’invio di armi in Ucraina, così come il suo ex alleato di governo Salvini, che si dice molto restio all’ultima «tranche» di aiuti militari.
C’è poi un altro partito della maggioranza, Forza Italia, in teoria il più atlantista dell’arco costituzionale, che registra diversi mal di pancia di fronte alle dichiarazioni di Berlusconi. Il cavaliere a Napoli, a parte il solito folclore canzonettistico un po’ fuori luogo visti i tempi che viviamo, si pronuncia a favore di un accordo sul cessate il fuoco in Ucraina che preveda l’accoglienza delle richieste di Putin. Potremmo parlare di «liberismo putiniano», ma forse è un po’ azzardato. Fatto sta che molti colonnelli o ex colonnelli del partito si sono dissociati o si sono affrettati a correggere il pensiero del leader.
Di fronte a tutto questo Draghi cerca di serrare le fila. Dopo una fase politica in cui sembrava silente e forse anche un po’ appannato, l’altro giorno ha bacchettato i parlamentari della maggioranza mandando un segnale forte e chiaro, ricordando che se non si arriverà ai decreti attuativi della legge delega sulla concorrenza (su cui la Lega è critica per quanto riguarda le concessioni balneari) si rischiano di perdere i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Con la giustizia, in vista dei referendum, ricorda che anche la riforma deve essere approvata in tempo utile. Naturalmente il governo - a meno di colpi di scena - dovrebbe tenere. Ma è certo che in vista delle amministrative del 12 giugno le convulsioni cresceranno. I partiti sono sempre più liquidi e opportunisti: da un lato si lasciano guidare da leader «esterni» sotto la protezione del Quirinale, dall’altro inseguono logiche diverse, poiché sanno di poter stare a galla solo attraverso il consenso elettorale e non possono permettersi scelte «impolitiche». Il risultato è una confusione e uno strabismo sempre più profondi che finiscono per allargare la disaffezione alle urne. E il 12 giugno si vota.
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