Bergamo, processi fissati al dicembre 2025: non chiamatela giustizia

Il tribunale di Bergamo sta fissando i processi per citazione diretta al dicembre del 2025, ossia da qui a quattro anni. Si tratta di procedimenti per reati pressoché bagatellari, roba di poco conto se osservata con la lente asettica della statistica. Sono numeri, a volte intralci da eliminare con escamotage burocratici per supplire alle ormai fisiologiche carenze della giustizia, che qui a Bergamo si chiamano mancanza di personale. Si fissa la prima udienza a tempo scaduto perché nel frattempo il fascicolo muoia per asfissia, e cioè di prescrizione.

Un delitto perfetto, perpetrato con l’arma bianca del pragmatismo giudiziario e voltando le spalle alla categoria eterea del Principio. Dietro ogni numero, dietro ogni fascicolo, ci sono infatti storie e persone che hanno il diritto di ottenere giustizia. E non si pensi solo alle parti offese. Un indagato che rimane sotto inchiesta per quattro anni, solo perché la macchina giudiziaria non è in grado di far fronte all’inverosimile carico di procedimenti, non è più un semplice indagato, bensì uno che già sconta una condanna a prescindere. Perché, al di là della spada di Damocle che gli farà compagnia per quattro anni, c’è una serie di inconvenienti che troppo spesso si dimentica. L’estenuante attesa di una sentenza parcheggia un imputato in un limbo che preclude diritti. Pensiamo ai carichi pendenti e a una persona che magari verrà assolta, ma che nel frattempo non potrà partecipare a concorsi, giocandosi così la possibilità di un lavoro. È vero, come ha ricordato ieri il procuratore della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli, che la giustizia non può essere ridotta a produttività e velocità. Che serve qualità. Già, ma lui stesso ha osservato che i tempi incidono sulla qualità di un processo, perché dopo anni le prove dichiarative sono affievolite, se non perdute. Cosa che potrebbe in parte spiegare anche la non modesta percentuale di assoluzioni: a Bergamo il 38,09% nel monocratico, il 33,85% nel collegiale.

La riforma Cartabia ha il merito di aver additato la lentezza di molti processi come una delle zavorre della giustizia, introducendo una dead-line per i vari gradi di giudizio. Ma si scorda - e bene ha fatto ieri Castelli a sottolinearlo - che ridurre i termini non vuol dire ridurre i tempi. E che sono i carichi di lavoro e la carenza degli organici il vero male della giustizia italiana, non il rito, altrimenti - prendiamo a prestito l’osservazione del presidente della Corte d’appello - non si spiegherebbe come, a parità di meccanismi procedurali, le prestazioni varino, e anche di molto, da tribunale a tribunale.

In Procura a Bergamo sulla scrivania di ciascun pm piovono in media 1.160 nuovi fascicoli all’anno. Il tribunale non riesce a far fronte a tutti i faldoni che da piazza Dante partono alla volta di via Borfuro. C’è da sperare nel nuovo Ufficio per il processo e nei fondi del Pnrr, che andranno spesi con sapienza perché sono una tantum. E magari tentare la via alla depenalizzazione dei reati bagatellari. Da sanzionare dal punto di vista amministrativo, perché pretendere di regolare penalmente l’intero perimetro tracciato dal codice è un lusso che una giustizia al collasso non si può più permettere. Purtroppo, però, l’idea depenalizzatrice è stata finora percepita come un’eversione e respinta al mittente con sdegno neoclassico da legislatori pavidi, i quali di fronte a ogni allarme sociale non trovano di meglio che farsi guidare dalla pancia (che di questi grami tempi si traduce in consensi elettorali), apparecchiando nuovi reati o inasprendo le punizioni. Senza sapere che, come scriveva Cesare Beccaria, la capacità di intimidazione e di prevenzione di una pena non è legata alla sua misura e alla sua durezza, ma all’elevata probabilità e soprattutto alla rapidità della sua applicazione.

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