L'Editoriale
Venerdì 13 Settembre 2019
Bene L’italianità
dipende chi paga
Nello scacchiere economico della globalizzazione, che ha visto negli ultimi anni nel nostro Paese grandi trasformazioni industriali e il passaggio di mano di importanti marchi, «l’italianità» conta sempre meno. Difendere la nazionalità delle imprese, come spesso si è fatto, anche per proteggere malcelati interessi di parte, è servito solo ad aggravare i problemi di aziende incapaci di realizzare piani di sviluppo sostenibili sul mercato. Emblematico è il caso di Alitalia che fin dai primi anni del 2000 era considerata a rischio e per la quale Air France aveva presentato un’offerta di acquisto di 1,7 miliardi di euro, assicurando anche la copertura dei debiti. Il compianto ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, dopo aver cercato invano qualche imprenditore italiano disposto a rilevare la compagnia, si era rassegnato alla soluzione francese perché ritenuta la più conveniente. L’apertura della crisi di quel governo e l’ascesa di Silvio Berlusconi, sostenitore della difesa dell’italianità della compagnia aerea, portarono il governo ad impegnare 3 miliardi di fondi pubblici per ripianare le perdite. Fu contestualmente chiamata a raccolta una cordata d’imprenditori italiani e la stessa Air France, che versarono complessivamente 1,2 miliardi di euro.
Da allora Alitalia ha cambiato tre Amministratori delegati, ha accumulato debiti per oltre un miliardo, di cui 300 con l’Eni per la fornitura di carburante, ed oggi perde oltre 500 mila euro al giorno. Dopo la nomina di tre Commissari, che non sono stati in grado di riavviare una gestione positiva della società, il governo M5s-Lega, seguendo la logica sovranista di «prima gli italiani», si è impegnato per favorire il mantenimento della società in mani nazionali. Si è dato vita, così, ad una «newco» che prevede Ferrovie dello Stato con il 30% della nuova società e il ministero dell’Economia e delle Finanze con una percentuale attorno al 15%, il che porta lo Stato ad essere azionista di maggioranza con il 45%. A queste quote si aggiunge quella del partner privato esterno individuato nell’americana Delta con il 15%, dopo il no di Easyjet. Sul piatto resta un 40%, ma non è ancora chiaro chi sarà disposto a prenderlo. Potrebbe essere Atlantia della famiglia Benetton, concessionaria di Autostrade, che dopo le vicende del ponte Morandi di Genova è entrata, però, in collisione con il governo appena scaduto.
Nel frattempo, la situazione dei conti di Alitalia si è ulteriormente aggravata. Ha perso nel 2018 oltre 500 milioni di euro che equivale al fatturato complessivo di Ferrovie dello Stato. Insomma, per conseguire un pieno salvataggio di Alitalia occorrerebbero circa 2 miliardi di euro d’investimento, mentre la società continua a bruciare ogni giorno più di un milione di euro. Toccherà ora al prossimo governo, chiamato da subito ad un esame delle criticità che hanno indebolito il potenziale di Alitalia negli ultimi 20 anni, soprattutto in termini di ricerca e innovazione, legate in particolar modo ad un’inadeguatezza manageriale e amministrativa coperta da illusori slogan propagandistici a difesa dell’italianità.
La cronica mancanza di politiche industriali pubbliche in settori strategici per l’economia del Paese, come le industrie dei trasporti e delle telecomunicazioni è stato un errore fatale per chi ha governato l’Italia negli ultimi anni e continua a causare danni gravissimi per la competitività del sistema Paese. Il compito della politica non è quello d’intervenire per condizionare le logiche del mercato, bensì di dare regole che sottraggano all’arbitrio e all’interesse di parte la gestione di ogni industria, specie quelle di rilevanza strategica. Queste ultime, proprio perché riconducibili all’interesse generale, vanno gestite, come ogni altra azienda, seguendo unicamente principi di economicità. Oggi più che mai, occorre privilegiare chi si dimostri capace di realizzare il piano industriale più competitivo, fondato su progetti e investimenti in grado di creare sviluppo e occupazione.
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