Auto, crisi nella crisi
e cure da cavallo

Il «cigno nero» del coronavirus sta infettando anche l’industria dell’auto del nostro Paese. L’Italia in febbraio ha venduto l’8,8 per cento in meno di vetture. Perdite rilevate un po’ da tutti i marchi dell’auto, a cominciare da Fca, e in tutti i settori, dalle auto elettriche alle ibride. Le ripercussioni si faranno sentire sull’occupazione, dai metalmeccanici ai concessionari. Certo è presto per tirare le conclusioni, ma certamente la paura del contagio ha influito sul mercato, perché quando un Paese vive un momento di incertezza i consumatori (è una delle regole del mercato) in attesa di tempi migliori, tende psicologicamente a sospendere gli acquisti importanti, come quelli di una nuova macchina per tutta la famiglia.

L’epidemia naturalmente non è l’unica causa, ma arrivano già dati certi non solo dalle cosiddette «zone rosse» e dalle zone più esposte al contagio. Da un’inchiesta congiunturale condotta dal Centro Studi Promotor a livello nazionale a fine febbraio emerge che ben il 79 per cento dei concessionari dichiara un basso livello di affluenza nei saloni di vendita e una percentuale soltanto lievemente inferiore (75) dichiara anche un basso livello di acquisizione di ordini.

Ma stiamo parlando di una crisi che già era nell’aria. Viviamo una crisi dentro la crisi potremmo dire, una tempesta (quasi) perfetta. Le attese per il futuro, dal punto di vista degli ordini, non sono certo incoraggianti. Del resto chi ha voglia di comprarsi una macchina in un contesto del genere? Per non parlare della paura di rimanere contagiati in un’autosalone. Si rinviano persino le visite. Ecco così che questa epidemia sta avendo conseguenze nefaste. L’industria dell’auto è solo uno dei termometri perché la crisi incombe anche in altri settori, dal turismo ai trasporti alla ristorazione, a tutte le attività legate ai centri di aggregazione, come le palestre o le discoteche, fino a tutte quelle aziende che hanno rallentato la loro attività ricorrendo allo «smart working» (nel settore bancario metà dei dipendenti lavorano da remoto, molti di loro pronti a sostituire i colleghi in caso di necessità).

In un contesto così depresso, che peraltro coinvolge anche il sistema sanitario pubblico, è necessario un grande sforzo per dare ossigeno alla nostra economia. Le stime vanno dai nove a 27 miliardi complessivi. Serviranno incentivi fiscali, sgravi, nuovo credito dalle banche. Qualcuno parla addirittura di un «piano Marshall» forse enfatizzando un po’ ma certamente si tratterà di mettere in campo misure straordinarie, una cura da cavallo, a cominciare dall’automotive perché se crolla l’industria dell’auto crolla la punta di diamante dell’industria manifatturiera italiana.

Ma per il momento si abbassano le stime: da quasi due milioni di vetture, probabilmente chiuderemo l’anno, se tutto va bene, con non più di un milione e mezzo di nuovi modelli. Purtroppo da un punto di vista economico il coronavirus è andato al cuore del sistema economico italiano, a quella Lombardia e a quel Veneto che insieme costituiscono una delle zone più ricche e produttive d’Europa. Anche per questo, tutti insieme, bisogna sconfiggere il «cigno nero». Dall’Ufficio studi della Cgia segnalano che in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Liguria viene generata la metà del Pil nazionale e del gettito fiscale che finisce nelle casse dell’erario; vi lavorano oltre 9 milioni di addetti occupati nelle imprese private (pari al 53% del totale nazionale); da questi territori partono per l’estero i due terzi delle esportazioni italiane e si concentra il 53% circa degli investimenti fissi lordi. Se affonda il Nord affonda l’Italia intera.

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