Andiamo a votare, ci farà solo bene

L’EDITORIALE. Bergamo continuerà a crescere se anche l’Europa continuerà a crescere. Ed è vero l’esatto contrario: l’Europa continuerà a crescere se anche Bergamo continuerà a crescere. E i territori - e soprattutto le comunità - crescono se tutti portano il proprio contributo, se ciascuno di noi porta le proprie idee, la propria passione, il proprio senso civico a favore dell’altro, sia che stia a Bruxelles sia che stia sugli spalti delle Mura, a rimirare ciò che quel balcone, unico al mondo, offre allo sguardo di tutti, indipendentemente dalle proprie convinzioni politiche.

Se tutto ciò ha un senso, ne conseguono due semplici considerazioni. La prima: andiamo tutti a votare. Non solo perché ce lo dice la Costituzione, non solo perché è un nostro diritto, non solo perché è un nostro dovere di cittadini responsabili nei confronti di tutti, ma «semplicemente» perché ci farà stare bene con noi stessi, con la nostra coscienza, con la nostra coscienza di uomini liberi, uomini liberi che conoscono bene il valore della libertà, e della libertà di coscienza. Non perché hanno combattuto dentro una trincea per averla (quelli che l’hanno fatto ormai sono rimasti in pochi e a loro deve continuare ad andare la nostra imperitura riconoscenza), ma perché hanno pienamente goduto dei frutti di quel sacrificio, spesso anche immeritatamente. Oggi tracciare un segno (valido) sopra una scheda elettorale può avere lo stesso valore che imbracciare un fucile più di ottant’anni fa, può essere «rivoluzionario» alla stessa maniera, anche se - come purtroppo avviene per molti di noi - siamo sfiduciati nei confronti di una politica incapace di rappresentarci, di interpretare le nostre istanze, di portare a compimento progetti che, al contrario, continuano a volare sopra le nostre teste, pieni solo di parole vuote.

Ma anche in questo caso dobbiamo essere «Giovannei», dobbiamo scindere i politicanti dalla politica, continuando a credere in quella con la P maiuscola, continuando a coltivare «la speranza contro la speranza» - «... qui contra spem in spem credidit» scriveva San Paolo -, provando «ad osare l’inosabile» come amava dire Giorgio la Pira, che della frase di Paolo di Tarso fece il motto della propria vita. Cerchiamo di essere anche noi artefici del nostro tempo. Proviamoci almeno, ancora una volta, tutti insieme: ci farà stare meglio non regalare all’ignavia un così prezioso esercizio di democrazia, quella «forma di governo – insegna la Treccani - in cui il potere risiede nel popolo, che esercita la sua sovranità attraverso istituti politici diversi». Come il voto.

La seconda considerazione è che se al centro del nostro voto c’è il bene comune, allora dobbiamo necessariamente lasciare fuori dalla cabina elettorale la «pancia» per ascoltare invece la «testa». È noto infatti che la logica è lenta e l’istinto è veloce, ma non sempre velocità e buon senso vanno d’accordo: «Il mondo moderno della fretta - annotava Lamberto Maffei nel suo brillantissimo “Elogio della lentezza” – è portato al cinismo sociale, che tende a considerare il vecchio come un peso sul quale non è utile investire». È facile convenire che non è certo questo l’atteggiamento da seguire per esprimere un voto degno del valore che la scheda elettorale racchiude in sé, e consapevole del difficile momento che l’intera comunità internazionale sta vivendo. La «vecchia» Europa ha sì bisogno di un profondo rinnovamento, ma nel solco di un cammino che deve ritrovare la linfa vitale nelle solide radici coltivate dai «padri fondatori», nello spirito che animava uomini come Robert Schuman, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, e che oggi (fortunatamente) ispira con lo stesso vigore anche il nostro Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Pace, prosperità e democrazia non sono parole vuote, ma è ciò che l’Europa è stata in grado di garantire a ciascuno di noi da ottant’anni a questa parte: tornare a nazionalismi, sovranismi, populismi sarebbe un errore dalle imprevedibili (nemmeno tanto…) conseguenze. Per dirla come il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, «l’Europa è una scintilla brillante, un faro luminoso. Quando guardiamo verso Est e vediamo i carri armati di Putin, o la Cina in cui si impone un insieme di valori molto diverso dal nostro; quando guardiamo a Nord e vediamo cosa ha fatto la Brexit, o ad Ovest e vediamo le profonde divisioni sociali che il trumpismo ha sfruttato, quando guardiamo all’interno e vediamo che i principi che abbiamo dato per scontati sono ora messi in discussione, vuol dire che è giunto il momento in cui il mondo ha bisogno dell’Europa nella sua forma migliore (e degli europei - ndr). Abbiamo bisogno di questa speranza. Abbiamo bisogno dei valori che l’Europa difende».

Ma i bergamaschi di 164 Comuni oggi e domani dovranno scegliere anche chi amministrerà le città e i paesi in cui vivono. Una scelta importante che non può prescindere da un’attenta valutazione del lavoro svolto da chi ha amministrato fino ad oggi e dai programmi e dalle capacità di realizzarli di chi si candida per il cambiamento.

Anche i cittadini di Bergamo sono chiamati a scegliere il successore di Giorgio Gori, scelta resa ancor più difficile dal fatto che - indiscutibilmente - l’attuale inquilino di Palazzo Frizzoni può essere tranquillamente annoverato tra i migliori sindaci che la città abbia avuto dal Dopoguerra ad oggi. Forse non vincerebbe il primo premio al concorso per il sindaco più «simpatico» d’Italia (anche se nel tempo è sensibilmente migliorato), ma la simpatia conta poco se alle spalle non ci sono capacità, competenza, passione e compassione (nel senso più alto del termine) per la propria città. E queste caratteristiche Giorgio Gori le ha avute e le ha dimostrate, senza alcun dubbio, e non solo durante la tragedia collettiva della pandemia. Mai impreparato, deciso a studiare i problemi prima di avanzare le possibili soluzioni (anche se non sempre le ha trovate), in dieci anni ha cambiato il volto della città, oggi certamente aperta all’Europa e al mondo, culturalmente più vivace rispetto al passato, capace di raccogliere ogni sfida e di pensare in grande pur mantenendo ben salde le proprie radici bergamasche. Al di là della «Capitale della Cultura 2023, ha portato a termine, ha realizzato e ha messo in cantiere una serie di infrastrutture decisive per il futuro di Bergamo, mettendola al riparo dal rischio di essere in qualche modo «dimenticata». Forse ha insistito troppo in una certa interpretazione di laicità, che tuttavia non sembra ricalcare esattamente il senso comune e la sensibilità di cui sono impastati Bergamo e i bergamaschi.

Chiunque gli succeda, avrà vita difficile: reggerne il confronto (e il passo), sarà complicato, soprattutto se i «tagli» alle casse dei Comuni di cui si ipotizza proprio in queste ore diverranno realtà. A chi verrà dopo di lui resta una piccola «consolazione», e cioè che i campi d’azione si sono inevitabilmente ristretti: una mobilità da ripensare meglio, uno sviluppo a sud della città da presidiare nel migliore dei modi, una sicurezza da continuare a garantire in ogni quartiere della città.

Ma la vera sfida del successore di Gori deve essere per forza di cose il welfare: lo dicono i numeri. Da qui al 2042 (in pratica dopodomani) la popolazione di Bergamo dai 65 anni in su crescerà di quasi il 34%, quella tra i 15 e i 64 anni di età dello 0,4%, una «forbice» a dir poco drammatica che impone scelte univoche a partire da subito, anche a Palazzo Frizzoni, chiamato alla difficilissima sfida di rendere la città a misura di anziano, ma anche attraente e appetibile per le giovani generazioni. Servizi sociosanitari da un lato (non si dimentichi l’attuale carenza dei medici di famiglia, destinata comunque ad attenuarsi negli anni a venire), e serie politiche per la natalità e la famiglia dall’altro. Servono fondi, certo, ma anche energie e idee innovative, molto innovative, che coinvolgano più soggetti, pubblici e privati insieme. Bergamo ce la può fare, con il voto di tutti. E in bocca al lupo ai tre candidati: che vinca il migliore, uomo o donna che sia. Basta che sia il meglio. Per la città, s’intende.

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