Amazzonia specchio
delle nostre sciagure

E’ il banco di prova del mondo. Ed è anche il banco di prova della Chiesa. In Amazzonia si lucida lo spirito di rapina, predatorio e insaziabile, della globalizzazione più prepotente. Occuparsi dell’Amazzonia non è affatto cedere ad una «psicosi ambientalista», secondo l’accusa del presidente brasiliano Jair Bolsonaro a tutti coloro che hanno lanciato l’allarme di fronte ai roghi che continuano a bruciarla. Occuparsi dell’Amazzonia, come la Chiesa universale farà da oggi per un mese intero, significa ripensare ad un modello che considera la terra una merce e come tale può essere sfruttato, degradato, depredato senza scrupoli per accumulare denaro.

Significa occuparsi della gente che ci vive e che ci muore, perché rapinare una terra per produrre sempre più beni per i ricchi ha come conseguenza la morte per le comunità che vivono dei frutti di quella terra, che per loro è madre.

Oggi il mondo ha deciso che si può distruggerla senza limiti e, soprattutto senza rendere conto a nessuno. C’è uno solo che si mette di traverso, l’unico leader morale del pianeta. E lo fa perché l’Amazzonia è più che un simbolo del tutto che non va e fa capriole politiche, economiche, sociali, morali. L’Amazzonia non solo è una regione cruciale, perché produce ossigeno, perché da lì viene un bicchiere d’acqua su quattro di quelli che beviamo, perché la foresta cattura quantità immense di anidride carbonica e rallenta il riscaldamento globale. È una regione cruciale perché il cambio di passo del resto del mondo verso l’Amazzonia darebbe la misura della consapevolezza che bisogna cambiare quel sistema che oggi rubrichiamo sotto le parole «globalizzazione dell’indifferenza».

Una Chiesa che si occupa dell’Amazzonia è una Chiesa che cammina con il Vangelo in mano, invita alla conversione, cioè al cambiamento di vita, adesso e non dopo, ora nel cuore della Storia e non più tardi attendendo chissà quale nuova terra e chissà quali nuovi cieli. Se il mondo inciampa, la Chiesa ha il dovere di denunciarlo e di proporre un cammino migliore dove nessuno cade per via delle buche che incontra lungo il cammino. È una chiesa che ripara, che sente attuale il richiamo di Gesù a Francesco «Va’ e ripara la mia casa». Perché anche nella Chiesa c’è qualcuno che accusa il Papa di psicosi ambientalista a danno di presunti valori più evangelici senza capire che riparare la «casa comune», la nostra terra, insomma la Storia, non è un richiamo complementare. È esattamente la missione primaria di ogni cristiano oltre che di ogni uomo di buona volontà. Bergoglio ieri lo ha spiegato con parole perfette quando ha denunciato che il fuoco che brucia l’Amazzonia non è quello del Vangelo. Il fuoco di Dio – ha detto – «è calore». Il fuoco che divora la foresta «divampa quando si vogliono portare avanti solo le proprie idee, fare il proprio gruppo, bruciare le diversità per omologare tutto e tutti». Il Papa ha agitato lo spettro di un «nuovo colonialismo» e ha messo in guardia dalla sua «avidità».

È un ragionamento che non vale solo per l’Amazzonia. La Chiesa in passato ha camminato accanto e spesso ha dato una mano ai colonialismi. Poi ha ammesso l’errore e un Papa santo, Giovanni Paolo II, ha chiesto perdono per primo. L’evangelizzazione come conquista ha travolto popoli indigeni, ha benedetto ingiustizie, crimini, financo stermini. Ha tradito il Vangelo, perché non ha fatto sentire, ha detto ieri il Papa, «la carezza d’amore della Chiesa». Bergoglio convocando il Sinodo sull’Amazzonia ha deciso che non si può più girare la testa dall’altra parte e non solo sull’Amazzonia, ma sulla rapina globale, che spezza la terra, la vita e le anime con la forza e con le norme. L’Amazzonia è lo specchio del mondo intero e della nostra sciagura.

© RIPRODUZIONE RISERVATA