Alternative al carcere, questione di buon senso

ITALIA. Un detenuto che sconta l’intera pena dietro le sbarre – dicono le statistiche richiamate più volte dagli addetti ai lavori – tornerà a delinquere nel 68,4% dei casi, a fronte di un 19% soltanto che ci ricascherà dopo aver seguito un percorso rieducativo attraverso una misura alternativa al carcere.

È quindi nell’interesse della società puntare il più possibile su queste ultime. Non è buonismo, è buon senso: al di là delle reazioni di pancia, dei facili giustizialismi, dei dibattiti sulla certezza della pena (troppo spesso intesa solo come carceraria) non dobbiamo dimenticare che il recupero della persona condannata e l’incremento della sicurezza sociale, fine ultimo a cui tendere, sono in fin dei conti due facce della stessa medaglia.

Bergamo da questo punto di vista fa moltissimo. I dati dell’Ufficio esecuzione penale esterna lo testimoniano. Ne abbiamo dato conto nell’edizione de L’Eco di Bergamo di del 24 agosto: in quattro anni i casi in carico all’Uepe di piazza della Libertà sono cresciuti del 55%, passando da 1.693 del 2018 ai 2.631 di fine 2022. C’è poi l’opera instancabile compiuta nella casa circondariale intitolata a don Fausto Resmini, per portare avanti progetti di lavoro all’interno delle mura e avviarne di nuovi: gli ultimi dati (fonte Cnel) rivelano che il tasso di recidiva tra i detenuti che hanno accesso a un lavoro precipita addirittura al 2%.

E allora vien da chiedersi: se le misure alternative aumentano così tanto, perché il carcere «scoppia» lo stesso? A Bergamo la casa circondariale ospita 526 detenuti a fronte di una capienza di 319 (dati aggiornati al 31 luglio) con un tasso di affollamento monstre pari al 165%. Per trovare la risposta a questa apparente contraddizione basta guardare «dentro» via Gleno, oltre le sbarre, e incrociare le «storie» di chi ci vive. E i numeri qui fanno davvero impressione: su 409 condannati in via definitiva sono ben 296 i detenuti con un residuo di pena da scontare inferiore ai 4 anni, i quali in linea teorica potrebbero accedere alle misure alternative al carcere. Non tutti, certo: si dovrebbe valutare caso per caso (c’è ad esempio la questione dei «recidivi»). Ma certamente per alcuni questa possibilità si potrebbe concretizzare. Perché allora rimangono «dentro»? La risposta è semplice: per accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare, alla libertà vigilata, servono generalmente una casa o comunque una struttura di accoglienza, un lavoro (se si pensa alla semilibertà), una rete d’appoggio forte all’esterno, per scongiurare il fallimento del percorso rieducativo. Così in carcere, di fatto, ci restano gli ultimi fra gli ultimi: stranieri senza casa, tossicodipendenti (in 300 all’interno del carcere di via Gleno hanno problemi di questa natura e non è certo un caso), soggetti con problemi psichici.

«Mancano servizi intermedi», ha dichiarato a L’Eco Lucia Manenti, che dirige l’Uepe di Bergamo. E allora forse sarebbe meglio concentrare sul potenziamento di questi servizi – comunità di accoglienza, assistenti sociali, Serd, psicologi, educatori, percorsi di avviamento al lavoro - le risorse che si è immaginato invece di stanziare per riconvertire le ex caserme in «carceri light» per tentare di affrontare il cronico sovraffollamento dei penitenziari. Una proposta, quella del guardasigilli Carlo Nordio all’indomani dei suicidi nel carcere di Torino (ma un caso si è verificato purtroppo anche a Bergamo), che ha incontrato più critiche che favori, non foss’altro che per gestire ulteriori strutture ci si troverebbe di fronte al problema degli organici: Via Gleno ad esempio conta 132 agenti di polizia penitenziaria effettivi a fronte dei 243 previsti, mentre gli amministrativi sono 17 su 22.

L’obiettivo quindi non può che essere la promozione di una cultura nuova, di un coinvolgimento maggiore della società nei progetti di recupero e reinserimento, di un rapporto più stretto – per dirla con il professor Ivo Lizzola – tra carcere e territorio. Chi ha sbagliato paghi, sì. Ma la sanzione sia utile alla collettività. Che è un’altra «vittima» del reato, oltre alla vittima in senso stretto.

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