Se non c’è mediazione
non può esistere coalizione

In settantacinque anni di storia repubblicana non c’è stato un solo governo che non fosse di coalizione. Ci sono stati gli anni del proporzionale (1946-1992); poi gli anni del maggioritario (fino a oggi, ma ultimamente rabberciato) che aveva fatto balenare la possibilità di una democrazia dell’alternanza e del bipartitismo. Mai comunque è stata infranta la regola che vuole, solo e sempre, maggioranze di coalizione. Le coalizioni sono per definizione incontri tra diversi e ciò comporta inevitabilmente una convivenza tribolata, punteggiata da continue contrattazioni, persino da litigi su programmi e posti di potere.

Lo impongono i partner minori per la necessità di non essere sopraffatti dal partito guida. Tocca a quest’ultimo assicurare la composizione dei conflitti, attraverso l’arte della mediazione, senza la quale una coalizione è condannata a fare del litigio il suo principale compito.

Sono queste le regole, più o meno rispettate, fino al termine dell’ultima legislatura. È allora che Lega e Cinquestelle stipulano, non un’alleanza, ma «un contratto». Non è una differenza da poco: un’alleanza si stringe sulla base di un accordo di programma, mentre un contratto nasce come soluzione di ripiego. Quando i programmi sono due, e due vogliono restare, com’è stato nel caso della maggioranza giallo-verde, allora si gioca sulla semantica: non alleanza, ma contratto, per sua natura destinato ad essere rescisso non appena risulta sconveniente. Così è stato! Da qui la nascita del governo giallo-rosso. Un cambio non solo della formula della coalizione, ma anche della sua natura. Da una convivenza tra separati in casa si è passati a una coabitazione tra litigiosi. Nessun accordo di programma e nemmeno alcun contratto, solo la condivisione dello stesso allarme: la paura del sovranismo leghista e – va detto - anche il pericolo di sprofondare nelle urne.

Ognuno per sé e nessuno per la coalizione: questa è stata la nuova regola della casa. Manca ancor oggi un programma condiviso. Persiste solo il pericolo del «barbaro» leghista. Per il resto, ciascuno dei quattro soci di governo valuta le mosse che meglio possano salvaguardare il suo stretto interesse. Il partito di maggioranza relativa, il M5S, cui spetterebbe l’onere di mediare i conflitti, ha sposato invece la linea dell’intransigenza. Solo agitando la bandiera di partito spera di serrare le file di un esercito in rotta. Stessa intransigenza sul fronte opposto, ma per un motivo contrario. Italia viva ha bisogno di nuovi accoliti. Niente di peggio che starsene mansueti. Per questo fa la faccia feroce con i suoi compagni d’avventura. Gli unici che invitano alla moderazione sono LeU e il Pd, ma non per generosità, bensì per interesse: il ruolo di responsabili rende. Oggi la prescrizione, domani i vitalizi dei parlamentari, dopodomani le concessioni autostradali: ogni giorno una bega, il che contribuisce a tenere il governo in bilico. In attesa che la litigiosità si plachi (difficile) o che malauguratamente si verifichi l’incidente di percorso (possibile) o ancora che qualcuno dei soci (Renzi? Di Maio?) valuti che sia meglio affrontare le urne stando sulle barricate piuttosto che stare in buon ordine ad aspettare una débâcle annunciata (non improbabile), l’invocata «fase due» resta un proposito inattuato.

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