L'Editoriale
Venerdì 22 Novembre 2019
Alitalia ed ex Ilva
Un Paese fermo
Di proroga in proroga, di aiuti di Stato in aiuti di Stato, Alitalia non decolla. Lo stallo dura da anni e i suoi diecimila dipendenti continuano a lavorare sull’orlo del baratro. Le Ferrovie dello Stato, che ne hanno il controllo, ironia della sorte, non riescono a trovare gli acquirenti necessari a comporre quel consorzio che potrebbe salvarla definitivamente. Finora il denaro dei contribuenti speso per non fare rimanere a terra il Vettore nazionale ammonta a nove miliardi e duecento milioni di lire.
Solo negli ultimi due anni ne sono stati versati un miliardo e mezzo. Il prestito-ponte dovrebbe essere chiamato prestito-viadotto visto che non finisce mai. È stato calcolato che se i nove miliardi e rotti fossero stati distribuiti indistintamente ai 12 mila lavoratori, questi avrebbero potuto vivere di rendita - o quasi - fino alla pensione, disponendo di quasi 350 mila euro a testa.
Lo Stato continua a pagare il conto a piè di lista senza avere una minima idea di cosa fare di quella che fino a poco tempo fa era una delle migliori compagnie del mondo, con i migliori piloti e i migliori velivoli. In fondo se l’opinione pubblica non si ribella e legge distrattamente dei prestiti ponti, che significa gettare denaro pubblico in un pozzo senza fondo, è perché si ricorda del blasone Alitalia, la compagnia che il mondo ci invidiava. Viviamo di un passato che non esiste più da trent’anni.
La realtà è che la compagnia di bandiera è finita in amministrazione controllata due volte, caso unico al mondo. Un’odissea che ha visto ben otto commissari e una litania di sprechi, errori gestionali, consulenze milionarie, arbitrati, incarichi, conflitti di interesse. Una greppia cui si sono approvvigionati in tanti. Tanto pagava lo Stato-Pantalone. Fino a poco tempo fa c’erano costosissime filiali estere in Paesi in cui gli aerei Alitalia nemmeno atterravano! Chissà che diavolo facevano i privilegiati che lavoravano in quegli uffici.
Ora siamo al punto di prima, con l’offerta sul mercato e i possibili acquirenti che non si decidono, aspettando evidentemente che il prezzo cali, per non parlare dei gruppi che aspettano che fallisca per comprarsi i pezzi più succulenti dello spezzatino.
Il caso Alitalia è la seconda bomba a tempo - insieme con l’ex Ilva - che rischia di far deflagrare il Paese, e non solo il governo. Il problema è sempre lo stesso: la mancanza di una politica industriale. Manca dopo tanti anni di rinvii e stanziamenti un progetto solido. Che fare di Alitalia? Quali rotte mantenere? Su quali mercati competere? A quali rinunciare? Cosa ristrutturare e cosa gettare a mare definitivamente? Non si è mai deciso. I governi che si sono avvicendati hanno tutti preferito spostare la notte più in là, anziché prendere decisioni, anche impopolari necessarie a salvaguardare definitivamente il lavoro dei dipendenti e amministrare i soldi dei contribuenti.
Il problema è anche che perdiamo credibilità sui mercati, giocandoci il nostro futuro di settima potenza mondiale industriale. Il tutto per l’irresponsabilità delle classi dirigenti, e soprattutto della politica industriale, bloccata nei grandi meccanismi decisionali. Abbiamo sotto gli occhi quasi un esempio al giorno. La faccenda comincia a farsi preoccupante, come se il sistema industriale italiano stesse lentamente ma inesorabilmente collassando. Un giorno sono gli stabilimenti Fiat, un altro è l’ex Ilva, un altro ancora è il Mose o l’Alitalia. Siamo il Paese delle piccole e medie imprese, ma senza grandi infrastrutture, grandi progetti e una grande industria non possiamo andare da nessuna parte.
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