Ai giovani italiani
manca la «fame»

Da oltre vent’anni non cresciamo più o cresciamo troppo poco. Una tendenza che è andata nel tempo cronicizzandosi e che vediamo di ora in ora improvvisamente ingigantirsi, con potenziali rischi recessivi, a seguito delle ordinanze restrittive per contenere la diffusione del coronavirus. Siamo un Paese che sta lentamente invecchiando e che continua a perdere smalto per via di un’inadeguatezza strutturale e di prospettive a sostegno dei giovani. Come purtroppo accade a molte persone anziane colpite in queste ore dal virus, di fronte a batoste economiche come quella derivante collateralmente all’inattesa epidemia, l’Italia si ritrova già fortemente indebolita di suo. Scontiamo un ritardo nell’adeguarci alle sfide della globalizzazione sul piano della competitività e dell’adozione delle tecnologie più avanzate.Pino

Presi da mille beghe di quartiere e giravolte ideologiche, manca visione e ancor di più coesione politico-istituzionale verso ciò di cui ci sarebbe assoluto bisogno: realizzare moderne infrastrutture e investimenti produttivi che generino occupazione; sostenere la ricerca e la cultura; migliorare ed omogeneizzare il livello d’istruzione scolastica.

Chi potrebbe oggi investire e produrre in Italia - al netto della contingenza legata al coronavirus - non accetta di sostenere i rischi derivanti dall’instabilità governativa, dall’incertezza delle leggi e dei contratti, dalla lentezza della giustizia, dal permanere di posizioni pretestuose anti-impresa. Non va dimenticato, però, che a limitare la crescita negli ultimi trent’anni hanno contribuito anche i problemi legati al «ricambio generazionale» nelle aziende familiari. Secondo recenti studi dell’Asam (Associazione per gli studi aziendali e manageriali dell’Università Cattolica di Milano) e della Aidaf (Associazione delle imprese familiari), in Italia le imprese familiari sono in crescita, avendo superato la quota di 2,5 milioni pari all’85% del totale nazionale, percentuale che al Sud sale al 98%. Queste imprese producono il 60% del valore aggiunto e occupano il 70% degli addetti complessivi del Paese. L’Asam evidenzia però che solo il 50% di esse arriva alla seconda generazione e appena il 10% alla terza, con un danno economico stimato in circa 25 miliardi di euro.

Ciò accade perché, in un caso su quattro, l’Amministratore unico è il capostipite il quale, nonostante l’età avanzata, continua a tenere il timone nelle proprie mani. Da parte sua l’Aidaf ci dice che su un bacino di 11.176 imprese familiari con un fatturato superiore ai venti milioni di euro e circa 5 milioni di addetti, il 25,5% è guidato da un imprenditore ultrasettantenne. Sono ancora poche le imprese nelle quali si riesce a pianificare per tempo un efficace ricambio generazionale, formando le nuove generazioni con esperienze lavorative anche all’estero e studiando soluzioni di «governance» che offrano opportunità d’inserimento in posti di responsabilità a manager qualificati e ai familiari più giovani.

Prevale l’egoistico arroccamento dei vecchi capitani d’azienda, la scarsa apertura all’innovazione e alla competitività che determina un’ineluttabile esclusione dai nuovi mercati fortemente concorrenziali e che può portare, più o meno lentamente, alla chiusura dell’attività. Ce lo conferma sempre lo studio dell’Asam, secondo il quale ogni anno nel Paese oltre 60 mila imprese sono interessate dal passaggio generazionale e il 30% di esse non sopravvive nemmeno alla fase iniziale, mentre un altro 30% chiude entro 5 anni, disperdendo prezioso know how e mettendo a rischio milioni di professionalità.

Molto è stato fatto soprattutto negli ultimi anni da parte delle associazioni industriali, di autorevoli studi commerciali e di istituzioni finanziarie specializzate per fornire gli strumenti tecnici e normativi idonei a governare in modo efficace il passaggio generazionale. Purché, ed è forse questo il punto più delicato, i giovani abbiano, sia pur metaforicamente, almeno la metà della «fame» dei loro padri.

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