L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 15 Giugno 2022
Agricoltura 4.0. È ora di investire
L’impatto economico dell’invasione russa dell’Ucraina, visto dall’Europa, ha avuto finora le sembianze dei nostri gasdotti e oleodotti un po’ più vuoti del solito, o dei nostri distributori di carburante con prezzi in continua ascesa. Ecco come si spiega un’inedita (per quanto tardiva) attenzione per la «sicurezza energetica» del Vecchio continente. Cambiando prospettiva, e assumendo quella dominante in Medio Oriente, Africa e America, l’impatto economico della guerra prende invece le forme dei campi di grano di Kiev distrutti dai soldati di Mosca, oppure delle navi-cargo vuote di sementi e bloccate nei porti ucraini.
Fuori dall’Europa, insomma, l’urgenza prioritaria dettata dalla guerra è la «sicurezza alimentare», prim’ancora di quella energetica. Russia e Ucraina, d’altronde, fino allo scorso 24 febbraio erano responsabili di circa un terzo dell’export mondiale di grano. Assieme, inoltre, i due Paesi producevano poco meno di un quinto del mais del pianeta e oltre la metà dell’olio di semi di girasole. Per non parlare del venir meno dei fertilizzanti russi, carenza che - come evidenziato dalla Fao - avrà un impatto ancora più forte sui raccolti attesi il prossimo anno. Si tratta di dati che aiutano a comprendere la gravità dell’allarme lanciato dall’Onu, secondo cui non è mai stato così elevato il rischio che 49 milioni di persone in 46 Paesi diversi siano vittime di una carestia nei prossimi mesi. Dall’Egitto allo Yemen, dal Libano alla Nigeria, ecco alcuni degli Stati maggiormente dipendenti dalle forniture ucraine erusse.
Le ricadute sociali e politiche di tale insicurezza alimentare non possono essere sottostimate, specie alla luce di quanto accaduto poco più di dieci anni fa, quando il rialzo record del prezzo del grano (e quindi del pane) fu - secondo molti analisti - uno dei fattori scatenanti delle cosiddette «primavere arabe». Una riedizione di dinamiche simili, tra instabilità politica in loco e rafforzamento dei flussi dei migranti in uscita, trasformerebbe l’insicurezza alimentare altrui in insicurezza tout court per l’Europa. Senza contare, infine, che tutti questi scenari potranno pure cominciare a materializzarsi tra qualche mese ma, già oggi, assistiamo a un incremento dei prezzi delle materie prime agricole in tutto il mondo.
Cosa può fare l’Europa, e al suo interno l’Italia, per raccogliere per tempo la sfida della «sicurezza alimentare»? Il sentiero diplomatico, per quanto stretto e impervio, deve essere ovviamente percorso, cercando una mediazione tra Mosca e Kiev per garantire «corridoi» sicuri - via terra e soprattutto via mare - per l’export di materie prime alimentari. Parallelamente, vanno presi sul serio gli allarmi lanciati dall’Organizzazione mondiale del commercio rispetto a una nuova ondata di protezionismo che difficilmente migliorerebbe la situazione: dall’inizio della guerra, infatti, almeno 30 Paesi hanno imposto divieti all’export di propri prodotti agricoli per timore di restarne senza, causando così ulteriori tensioni sui mercati.
Tuttavia c’è un’altra strada ancora da percorrere, che forse non porterà risultati nell’immediato, ma che potrà rafforzarci come Paese nel medio-lungo termine. Si tratta di ragionare su come aumentare la nostra produzione nel settore primario, soprattutto attraverso nuove sinergie con industria e tecnologia. Qualcuno la chiama «agricoltura 4.0» o «di precisione»: dai trattori senza guidatore ai droni che monitorano i campi, passando per i computer che elaborano le previsioni meteo e le tecniche di precisione per dosare acqua e trattamenti mirati. Nuove strategie, in estrema sintesi, accomunate dall’obiettivo di accrescere la produttività del comparto. A fronte di adeguati e necessari investimenti, secondo Confagricoltura, l’agricoltura di precisione può ridurre gli attuali costi delle imprese agricole, fino al 45%, peraltro favorendo un migliore utilizzo delle risorse naturali. Il mercato dell’agricoltura 4.0 è passato da 540 milioni di fatturato nel primo semestre 2020 a 1,3 miliardi a fine 2020 e 1,6 miliardi di euro nel 2021. Eppure solo il 6% del totale delle superfici nazionali è coltivato con simili tecniche all’avanguardia. Spazio per migliorare dunque c’è, e per proteggersi così in modo lungimirante da futuri shock alimentari.
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