Afghanistanin guerra
nasce il muro di Erdogan

Gli analisti più avveduti e aderenti alla realtà lo avevano previsto: il ritiro precipitoso delle forze Nato voluto dagli Stati Uniti dell’era presidenziale di Donald Trump e accelerato dal successore Joe Biden, avrebbe consegnato il Paese all’ennesimo conflitto. Troppa disparità fra l’esercito governativo e la furia ideologica e militare dei Talebani (il nome significa «gli studenti di teologia»). La previsione si è puntualmente avverata. In Afghanistan i guerriglieri ispirati da uno jihadismo incorruttibile proseguono

nella loro avanzata e puntano alla conquista di tre città: Lashkar Gah, Kandahar e Herat. Violentissimi scontri sono in corso nelle zone meridionali di quest’ultima, terzo centro del Paese, che il contingente militare italiano ha abbandonato a inizio giugno dopo quasi 20 anni di missione. «Si barricano nelle case e nei giardini della popolazione», riferiscono le forze di sicurezza di Kabul. Dei 17 distretti dell’omonima provincia nell’Ovest, solo due sono rimasti sotto il controllo del governo, Guzara ed Herat. Qui venerdì scorsi è stato attaccato il compound provinciale dell’Onu. Le vittime civili di questa guerra sono già centinaia.

Fu Trump a innescare il ritiro dei militari occidentali, avviando una trattativa con i Talebani, gli ex nemici il cui regime fu abbattuto dall’intervento anglo-americano dell’ottobre 2001, dopo gli attacchi agli Usa dell’11 settembre. Gli studenti di teologia erano accusati di proteggere Osama Bin Laden, poi ucciso dalle forze speciali statunitensi in Pakistan il 2 maggio 2011. L’accordo siglato a Doha (Qatar) nel febbraio 2020 tra Washington e Talebani, negoziato per un anno e mezzo, prevedeva il ritiro dell’esercito americano e a strascico degli alleati Nato. In cambio il gruppo islamista si impegnava a non permettere che il Paese possa ospitare organizzazioni terroristiche decise a pianificare attentati all’estero (quelli in patria sì...). Ma il mullah Baradar in quell’occasione ribadì che l’obiettivo per l’Afghanistan è «un regime islamico», cioè un Emirato, e chiamò «tutte le fazioni» a partecipare allo sviluppo di questo sistema. Triste presagio. L’ambasciata Usa a Kabul parlò addirittura di «giornata grandiosa». Ma più che un ritiro è stata una fuga da un indicibile fallimento militare e sociale, dopo che gli americani hanno pagato un prezzo altissimo all’avventura nella terra asiatica mai domata dagli stranieri (vi andò a picco anche l’Armata Rossa negli anni ’80): più di 2.400 tra militari e operatori statunitensi uccisi in missione, 19.650 feriti e una spesa folle di 2 mila miliardi dollari.

Dal 2001 il conto più tragico è però sulle spalle dei civili afghani: sono state 38.000 le vittime accertate. Da alcuni mesi moltissimi residenti, soprattutto della classe media, stanno lasciando le proprie case per paura di ritorsioni talebane. L’approdo è soprattutto Kabul ma tanti tentano la via dell’emigrazione. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, dall’inizio dell’anno circa 270 mila afghani sono stati sfollati all’interno del Paese a causa dell’insicurezza e della violenza, portando così a 3,5 milioni il numero complessivo. E con il solito attivismo cinico che lo contraddistingue, il presidente turco Recep Erdogan ha comandato la costruzione di un muro di 64 km, più di 3 già eretti, al valico di Van, porta di accesso dei migranti che arrivano dall’Iran, spesso afghani che tentano la traversata a piedi, oltre che iraniani. La barriera sarà pronta entro fine anno. Si aggiunge ai 149 km già costruiti in diversi punti del confine lungo le province di Agru, Hakkari e Igdir. Una parte dei fondi per edificare i nuovi 64 km potrebbero arrivare anche dall’Europa inconsapevole. Dopo i 6 miliardi di euro stanziati con l’accordo del 2016 per accogliere rifugiati siriani, a giugno Bruxelles ha infatti promesso alla Turchia altri 3 miliardi per il periodo 2021-2023, perché trattenga i migranti sul suo territorio evitando che raggiungano l’Ue.

Che l’accordo Usa-Talebani fosse labile, lo si evince da un’altra tragica evidenza: il Dipartimento di Stato americano sta lavorando per garantire l’ingresso negli Stati Uniti di migliaia di afghani giudicati in pericolo nel caso di una restaurazione dell’Emirato. Circa 2.500 persone che hanno collaborato come interpreti con le truppe americane hanno completato le procedure necessarie e 250 sono già arrivati negli Usa. Ma le richieste sono 20 mila e il numero potrebbe arrivare fino a 100 mila, mettendo nel conto i loro familiari. Nell’attesa molti sono già stati uccisi dai Talebani. Le ambasciate degli Stati Uniti e della Gran Bretagna a Kabul denunciano un massacro avvenuto a Spin Boldak, al confine con il Pakistan, conquistata dagli «studenti di teologia» il mese scorso, dove decine di civili sarebbero stati ammazzati per aver lavorato con il governo. E mentre il presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani in Parlamento chiarisce che «la situazione attuale è dovuta alla brusca decisione di Washington per il ritiro», 30 organizzazioni non governative il 21 luglio scorso si sono appellate all’Ue perché sospenda subito le espulsioni di aghani dal proprio territorio («nel loro Paese rischiano la vita»). Non hanno ricevuto risposta. Fughe camuffate da piani di riconciliazione risibili, muri e silenzi: ancora una volta la diplomazia internazionale ne esce perdente, lasciando macerie. Una sconfitta che ci riguarda.

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