L'Editoriale
Venerdì 16 Aprile 2021
Afghanistan, il ritiro
e lo spettro delle guerra civile
Così Joe Biden ha annunciato il ritiro delle truppe Usa (3 mila uomini) e per conseguenza di quelle Nato (7 mila) dall’Afghanistan. E ha scelto una data suggestiva, l’11 settembre, il giorno delle Torri Gemelle, per completare il ritiro. Non ha senso attardarsi sul fatto che, anche qui, il nuovo presidente ripercorre le orme di quello passato, prendendosi solo qualche mese di margine, settembre contro il maggio ipotizzato da Donald Trump. Contano di più altri due fatti, che lo stesso Biden ha in parte sottolineato. Il primo è che questa guerra ventennale è stata un colossale fallimento. Per condurla solo gli Usa hanno speso 2 trilioni di dollari (2 mila miliardi), una somma con cui si sarebbe potuto prendere l’Afghanistan e rifarlo nuovo. Per combatterla sono morti 3.541 soldati internazionali, quasi 7 mila soldati afghani, decine di migliaia di guerriglieri e soprattutto circa 200 mila civili che, secondo le statistiche più credibili, per il 40% sono stati uccisi proprio da coloro che da mezzo mondo erano arrivati a liberarli.
E il risultato qual è? Con ogni probabilità, nel giro di pochi mesi assisteremo a una riedizione della guerra civile degli anni Novanta, perché i talebani sono rinati e si sono rafforzati, tanto che possono sedersi come autorevoli interlocutori al tavolo delle trattative di pace. È chiaro che per il futuro dell’Afghanistan hanno progetti molto ma molto diversi da quelli di coloro che, con più o meno successo, governano all’ombra dei fucili Nato.
E con ogni probabilità saranno i talebani a vincere, forti del consenso che, soprattutto nelle campagne, non hanno di fatto mai perso. Come in un perverso gioco dell’oca, quindi, torneremo quasi esattamente alla casella del via. Vent’anni e 300 mila morti dopo.
L’altro fatto, incredibile se solo ci scostiamo dalla visione americocentrica che domina da decenni, è che questo ritiro è la replica di altri ritiri. Quello dal Vietnam, per esempio. O quello, molto più vicino a noi, dall’Iraq, decretato nel 2011 da Barack Obama che aveva proprio Biden come vice alla Casa Bianca. In Iraq sappiamo come andò. George Bush Jr e Tony Blair inventarono un po’ di frottole sulle armi di distruzione di massa per condurre la loro guerra coloniale. E produssero così un’ondata di violenze e distruzioni responsabile di molti massacri (morirono circa 15 mila tra soldati delle diverse nazionalità, soldati iracheni e contractor, almeno 30 mila soldati dell’esercito di Saddam Hussein, almeno 50 mila insorti e un numero di civili che nessuno ha saputo o voluto precisare, ma che assomma a centinaia di migliaia di persone), della destabilizzazione di un’intera regione e di quei risentimenti che, più avanti, spalancarono la strada ad Al Qaeda e all’Isis.
Eppure, ogni volta, si finisce con un più o meno clamoroso ritiro, di cui si parla come di un merito, di un gesto avveduto, e non come dell’inevitabile conseguenza di una formidabile ottusità e spietatezza politica.
Chi scrive era in Afghanistan nel 2001, quando questa ventennale follia prese il via. Seguivo l’avanzata dell’Alleanza del Nord e si capiva lontano un chilometro che era una guerra finta, vinta in partenza comprando il consenso delle tribù contro i talebani. Come sempre, comprare la vittoria non fu difficile. Comprare la pace, invece, si è rivelato impossibile. Vedrete, tra vent’anni faranno lo stesso con la Siria. E diranno le stesse cose che dicono oggi.
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