Abitare il silenzio la grande sfida
dell’uomo contemporaneo

Silenzio. Mai come in queste settimane si è usato tanto questo termine. Il silenzio delle strade e delle piazze, il silenzio dei volti e delle immagini. Quante parole per dire l’assenza di parole. E quasi sempre il silenzio, detto o scritto, è stato definito con diversi aggettivi (a volte scontati e non privi di retorica), come: irreale o sospeso. Eppure mai prima di questi giorni le nostre città sono state abitate da un silenzio realissimo e pesante come un macigno. Persino incontrando sotto casa o al supermercato vicini e conoscenti, oltre a qualche parola di circostanza, nei loro occhi sopra le mascherine si intravedeva la poca voglia, persino il disagio, comprensibile, di intrattenersi in discorsi. Forse per la prima volta abbiamo sperimentato cosa rappresenti davvero il silenzio, che non è solo assenza di suoni.

Viviamo in un’epoca in cui il silenzio è stato bandito. Il mondo è oppresso da una pesante cappa di parole e rumori. Credevano i babilonesi che gli dèi avessero inviato sulla terra il diluvio perché infastiditi dal chiacchiericcio degli uomini. Il silenzio infastidisce a tal punto che, dove sia imposto di tacere, si crea un rumore. Spaventa la pace della montagna, del bosco; spaventa la quiete dell’appartamento, e la si accende. Siamo incapaci di abitare il silenzio. Quando lo incontriamo, ci sentiamo a disagio, lo viviamo come un’anomalia. Eppure l’uomo ha tratto dall’alternanza giorno e notte, parola e silenzio i simboli che gli permettevano di definire fatti interiori; oggi non agiscono più. Come ha osservato il monaco e letterato Giovanni Pozzi: «La nostra esistenza si è impoverita per non sapere tradurre in figure interiori quelle esperienze primordiali».

Il silenzio, dunque, non è esclusivamente una dimensione esterna a noi, ma è soprattutto una condizione interiore, fondamentale del nostro esistere. È una sensazione, una proiezione. Ha a che fare con la ricerca personale. È quel silenzio che ci chiede di andare oltre le cose, di guardare in profondità, oltre la superficie del quotidiano, è rinuncia all’imposizione di sé e insieme capacità di ascoltare e conservare la parola altrui.

In molte religioni il silenzio è considerato la forma più alta di preghiera. Non a caso nelle celebrazioni di Papa Francesco – lo abbiamo visto soprattutto in queste settimane nella sua Messa mattutina –, il raccoglimento silenzioso occupa un momento importante.

Questa quarantena forzata forse non ci renderà migliori, ma certo ci ha abituati a convivere con il silenzio e magari a instaurare con questa dimensione un dialogo. Il silenzio può essere una fonte di rigenerazione e una chiave per comprendere più a fondo la vita e il mondo che abitiamo. Silenzio e parola camminano insieme, sono tra loro complementari, ciascuno ha bisogno della presenza dell’altro per manifestarsi nel pieno della sua essenza e insieme generare equilibrio. Quando il silenzio vive nel parlare o nell’ascoltare teso a comprendere una notizia che ha valore per la vita, allora diventa eloquente come le parole.

In questi giorni le nostre strade tornano lentamente a ripopolarsi e dunque a riempirsi di rumori e voci. Conquistare un silenzio che sappia farsi memoria è anche un modo per tenere accesa la fiamma del ricordo di chi in queste settimane ci ha lasciati. Il silenzio ha per l’appunto un compito: deve parlare. Deve dirci delle cose, e noi dobbiamo parlare con lui e sfruttare il suo potenziale inespresso. Il silenzio è sempre presente, anche quando siamo circondati dal rumore. Nelle profondità marine, sotto le increspature delle onde, c’è silenzio. A ciascuno spetta trovare la propria strada che conduce fin lì.

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