2 giugno diverso
Stato da ritessere

La Festa della Repubblica, il 2 giugno, è, o dovrebbe essere, il richiamo più solenne alla responsabilità collettiva in una fase così drammatica. Un riandare alle radici della coscienza italiana, della casa comune. La visita del presidente Sergio Mattarella a Codogno, la cittadina simbolo con Bergamo dell’epidemia, è molto più di un atto dovuto o simbolico: intende riassumere in modo fiducioso la partecipazione di tutti gli italiani ad una tragedia che non ha uguali nella storia d’Italia in tempo di pace. Perché, nonostante tutto, l’unità nazionale ha tenuto: non era comunque in discussione, tanto più che i problemi ora sono altri. Dal diritto alla difesa della vita si sta passando alla tutela della sopravvivenza economica.

Un 2 Giugno comunque diverso, ma a maggior ragione inserito nella rifondazione del «patriottismo costituzionale» voluta 20 anni fa dal presidente Ciampi, ripristinando questo giorno nel calendario civile del Paese, nel segno di una rinnovata pedagogia repubblicana. La Festa della Repubblica è incarnata ormai da tempo dalla figura del presidente che, nel rappresentare l’unità nazionale, un concetto dinamico che si misura in base alle contingenze storiche, svolge un ruolo sempre più essenziale nel garantire la tenuta complessiva del sistema politico-istituzionale.

Quella del Capo dello Stato (il simbolo vivente dell’autorità, lo definiva un grande giurista) resta una delle poche figure percepite come super partes e risparmiate da quel clima di sfiducia che è una caratteristica del nostro tempo e con la quale bisogna fare i conti: nel caso di Mattarella, confermano i sondaggi, il consenso è in crescita. Dalla fase 1 all’incognita della fase 2 i sentimenti prevalenti stanno cambiando: lo scambio fra minore libertà e maggiore protezione ha funzionato, ma questa concordia obbligata è stata soltanto una parentesi o l’inizio di qualcosa? La Costituzione dispone che l’Italia è una e indivisibile prima di riconoscere e promuovere le autonomie, quelle autonomie di prossimità che hanno dovuto governare in prima battuta l’emergenza sanitaria. Principio, quello dell’unità nazionale, non scalfito in questi mesi, anche se in agenda rimane la necessità di ritessere in maniera armonica i rapporti fra Stato centrale e enti locali, in particolare le Regioni, e talvolta il sovranismo regionalista. Ognuno è andato un po’ per la sua strada, rumoreggiando e vestendo alla Arlecchino il proprio territorio: Regione che vai, sanità che trovi.

C’è chi è riuscito nello stress test del coronavirus, chi meno, chi è rovinato clamorosamente, compresa qualche nobildonna decaduta, mentre Roma è parsa ondivaga: bastone e carota. Una Babele, un meticciato normativo, qualche distanziamento sentimentale ancor prima che sociale, un rimpallo fra presunte responsabilità penali. Parecchia confusione fra Signorie territoriali. Con punte regressive ed egoistiche e dalle frontiere protette: il contagio è tuo e te lo gestisci tu, guai agli untori. Senza superare, comunque, la soglia della rottura: discordia fra Regioni, posizioni contraddittorie con qualche fuga in avanti o ripiegamento, contrasto fra queste e i vari ministri, ma non oltre.

È andato in scena un piccolo protagonismo muscoloso dei singoli leader territoriali, che hanno giocato il ruolo di cui sono titolari e lo hanno reso al massimo con un effetto domino: se parte uno, poi arriva l’altro e quindi replica il terzo, e così a catena. Un ribellismo a bassa intensità, neppure nobilitato da un tessuto politico omogeneo capace di fare sintesi e massa critica. Niente a che vedere con la devolution bossiana che, pur a modo tutto suo, conteneva in sé un moto di popolo e una certa idea di statualità. Quella è un’epoca tramontata, già dismessa da Salvini, l’eretico dei lumbard, forse con l’unica eccezione del venetismo pratico alla Zaia: con logiche autonome, ma dentro i parametri governativi. Oggi vediamo in giro per l’Italia un regionalismo disordinato e spicciolo, fai-da-te, impigliato nelle proprie debolezze dopo 50 anni di vita, che vive di scatti rivendicativi, molto giocato sulla personalità dei governatori, indisponibile ad essere parte di un progetto dialettico rispetto alle istituzioni romane. Un insieme di spezzatini, fra chi scende e chi sale. Spesso una rincorsa a favor di telecamera. Un sistema che invece dovrebbe riflettere sulla diagnosi severa della Corte dei Conti, che ha messo il dito nella piaga: un apparato sanitario che ha privilegiato i grandi ospedali, lasciando sguarnite le protezioni territoriali.

Qualche pezza amministrativa, qualche manutenzione tecnica, ci potrà essere per superare il consueto braccio di ferro fra governatori e Palazzo Chigi, ma niente di più. Che continuerà, in ogni caso, a replicarsi il giorno in cui i finanziamenti europei andranno distribuiti in base alle priorità. L’infelice esperienza della riforma costituzionale di Renzi ribadisce che qualsiasi modifica della Costituzione va maneggiata con estrema cura e, soprattutto, con un vasto consenso, fattore che manca: materia infiammabile, chi tocca si scotta. Non è, realisticamente, nelle corde di questa Italia e nemmeno esistono le condizioni politiche per iniziare un dibattito adeguato, una fase costituente, che pure servirebbe.

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