Ogni 2 anni i giovani cambiano lavoro. «Restano se c’è un ambiente positivo»

L’ANALISI. Pagnoncelli (presidente Ipsos) analizza il fenomeno dei «Job hopper». «Sono cambiate le priorità. È un trend che durerà. Le aziende devono migliorare il welfare».

«Cambio lavoro perché non voglio chiudermi, desidero fare nuove esperienze, acquisire altre competenze». È una frase che le aziende hanno iniziato a «subire» con una certa frequenza già prima della pandemia da Covid. I millenial - giovani nati tra il 1981 e 1996 - sono i primi ad averla pronunciata con convinzione e a ripetizione. Sono stati loro i primi «Job hopper», quelli che saltano da un lavoro all’altro con una frequenza inimmaginabile per i cinquantenni di oggi, figli dell’agognato e intoccabile posto fisso. I dati del fenomeno sono impressionanti: secondo le più recenti ricerche sul mercato del lavoro, il 40% degli under 30 ha cambiato azienda nell’ultimo anno e il 67% è disposto a farlo entro i prossimi 12 mesi. Secondo un’analisi di Linkedin, il social molto utilizzato da aziende e professionisti, i giovani hanno una media di 4,2 posti di lavoro entro i primi 10 anni della loro carriera. In pratica applicano il «Job hopping» ogni poco più di due anni.

Le motivazioni post Covid

Se le motivazioni fino al 2020 erano quelle della ricerca di un cambiamento frequente per crescere professionalmente, dal post Covid il fenomeno è mutato nuovamente, soprattutto con la Generazione Z (i nati dopo il 2000). Non tanto nei numeri, ma nelle motivazioni. Lo conferma Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos, che ha approfondito il tema con numerose ricerche commissionate da gruppi aziendali: «Dopo il Covid abbiamo verificato sui lavoratori in generale, ma in misura ancora più rilevante tra i giovani, un cambiamento significato di priorità: non più la progressione di carriera, ma il benessere personale sul posto di lavoro in equilibrio con la propria vita privata. E anche la vogli di sentirsi apprezzati e valorizzati».

I sondaggi dicono che l’82% degli imprenditori afferma di aver aumentato, negli ultimi anni, gli investimenti nella formazione, il 77% dichiara di offrire orari di lavoro flessibili e smart working, mentre il 71% dice di aver migliorato i propri pacchetti di benefit

Le contromosse delle aziende

Una variazione che obbliga le aziende a reagire con nuove modalità per restare attrattive e contrastare il job hopping. I sondaggi dicono che l’82% degli imprenditori afferma di aver aumentato, negli ultimi anni, gli investimenti nella formazione, il 77% dichiara di offrire orari di lavoro flessibili e smart working, mentre il 71% dice di aver migliorato i propri pacchetti di benefit. Senz’altro il fenomeno è complesso per le aziende e riuscire a comprenderne le cause per studiare le contromosse aiuta a posizionarsi meglio sul mercato del lavoro relativo alla Generazione Z.

Riduzione delle disuguaglianze

«È davvero interessante osservare le modalità di reazione delle aziende per trattenere soprattutto i talenti - sottolinea Pagnoncelli -. Mettono al centro delle proprie strategie il rapporto con i dipendenti sviluppando significativamente il cosiddetto Welfare aziendale, che non è soltanto offrire opportunità economiche o convenzioni con i negozi, ma realizzare servizi internamente come asili nido, biblioteche, palestre oppure servizi di vario genere come il supporto psicologico. E poi hanno investito molto sulla riduzione delle disuguaglianze in senso più ampio per rendere gli ambienti di lavoro più confacenti rispetto a quelle che sono le aspettative delle persone».

Il giovane, quindi, non si sposta principalmente per fare un’esperienza nuova, ma per cercare un ambiente più vivibile, che gli garantisca le condizioni migliori. Tra queste c’è senz’altro lo smart working, un modo di lavorare da remoto che esisteva già prima del Covid ma che pochi lavoratori lo richiedevano. Oggi è esattamente il contrario

Richiesta di smart working

Il giovane, quindi, non si sposta principalmente per fare un’esperienza nuova, ma per cercare un ambiente più vivibile, che gli garantisca le condizioni migliori. Tra queste c’è senz’altro lo smart working, un modo di lavorare da remoto che esisteva già prima del Covid ma che pochi lavoratori lo richiedevano. Oggi è esattamente il contrario: una delle domande più frequenti che i giovani fanno durante un colloquio riguarda il numero di giorni concessi nella settimana con il lavoro da casa. «Noi di Ipsos abbiamo fatto un notevole investimento per attivare lo smart working nel 2014 - racconta Pagnoncelli -. La prima società di ricerche di mercato ad applicarlo. È stato un elemento che ha determinato una crescita esponenziale di fiducia nei confronti dell’azienda, un miglioramento significativo del clima sociale, ma veniva utilizzato da meno della metà dei dipendenti e nemmeno tutte le settimane. Dopo il Covid abbiamo invece fatto fatica a riportarli in ufficio... Ecco, i giovani oggi non chiedono più di tanto sugli aspetti retributivi di progressione in carriera, ma domandano i giorni di smart working e se devono lavorare il sabato e la domenica».

La ricerca di felicità

Il Covid ha veramente rovesciato le priorità. Un cambiamento che non è destinato a rientrare nell’immediato. Il presidente di Ipsos conferma che è un trend destinato a durare: «Lo noto nelle nostre ricerche sulla spesa relativa al periodo dell’inflazione: non abbiamo rinunciato come in passato al “fuori casa” perché vogliamo ritagliarci spazi di gratificazione sociale, di godere di momenti di felicità che passano anche dall’andare al ristorante. Questi cambiamenti profondi sono radicati nei giovani anche nella scelta del lavoro».

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