
Economia / Bergamo Città
Domenica 30 Marzo 2025
«Manodopera e migranti. Una vera integrazione non passa solo dal lavoro»
LO SCENARIO . Don Cristiano Re (Pastorale sociale): «Tante le variabili da valutare: dalla lingua, alle competenze. Sono persone, sbagliato considerarli semplici braccia».

I disoccupati in Bergamasca sono sotto il 3%; gli ultimi dati indicano un tasso all’1,5%. E sempre più aziende faticano a trovare lavoratori: i dati di febbraio riportano che il 53% delle realtà locali hanno problemi nel trovare nuovi dipendenti. Così istituzioni e imprese hanno iniziato a guardare all’estero. Ma anche la manodopera migrante porta con sé delle sfide, che riguardano la sua integrazione nel tessuto sociale. Ne abbiamo parlato con don Cristiano Re, direttore dell’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Bergamo.
Quali sfide e rischi connessi alla manodopera migrante in provincia?
«La sfida più grande è quella della sua integrazione completa, che deve andare al di là del solo posto di lavoro e della gratificazione economica. Non possiamo collocare venti o trenta migranti che non parlano italiano in un piccolo paese della Val Seriana o Brembana, così isolato che per raggiungere i servizi dovrebbero per forza di cose compiere lunghi tragitti a piedi o in autobus. E non possiamo pensare di accorpare decine di persone nello stesso centro e abbandonarle a sé stesse».
Sotto quali aspetti occorre promuovere una visione «integrale» dell’inserimento dei migranti?
«Innanzitutto quello della lingua. Poi c’è il riconoscimento delle competenze e dei titoli di studio, che spesso è fin troppo lento. Infine c’è il tessuto sociale: attorno ai migranti è necessario fare comunità, almeno per due motivi. Il primo è che le imprese bergamasche investono su di loro con la formazione e l’inserimento lavorativo, e di certo non vogliono che dopo qualche mese si trasferiscano all’estero perché non parlano italiano o non si sentono parte della comunità. Poi dobbiamo smettere di pensare a questi giovani lavoratori come a delle semplici braccia: è necessario iniziare a considerarli persone nella loro interezza, rispondendo ai loro bisogni di relazioni, contatti, cultura e svago. Non possiamo fermarci a un impiego e a una sistemazione».
Chi dovrebbe occuparsi di questa integrazione?
«Sicuramente l’azienda o l’associazione datoriale, a seconda di chi si fa carico di attivare i percorsi di inserimento lavorativo dei migranti. Queste realtà devono pensare di investire nei facilitatori di comunità, nei mediatori, negli educatori che spiegano il contesto in cui questi giovani si trovano catapultati, il suo stile di vita e le sue abitudini. In altre parole, dobbiamo reinventare i percorsi basati sulla retribuzione economica perché diventino occasioni di crescita e soddisfazione personale, di frequentazione comunitaria e di sviluppo delle passioni di ciascuno».
Spesso, i percorsi di reclutamento riguardano figure con un tasso di specializzazione medio-alto. Quanto cambiano le cose quando ci si trova di fronte all’inserimento lavorativo di chi migra in maniera autonoma, semi-legale o illegale?
«In questo caso si va a sbattere contro ingranaggi legislativi inceppati e difficili da sbrogliare. Il riconoscimento dei diritti degli immigrati è complesso, perciò molti fanno fatica a stabilizzarsi. Tanti non lavorano. Ma non perché non vogliano farlo, bensì perché le norme pongono degli ostacoli alla continuità lavorativa».
Di quali ostacoli parla?
«Facciamo un esempio pratico, quello del Cas di Castione della Presolana. Lì vivono 90-100 ragazzi che con il loro lavoro hanno permesso alle attività alberghiere, all’accoglienza e ai ristoranti del paese di continuare a lavorare per tutta l’estate, l’anno scorso. Sono stati ingaggiati legalmente, ma con due controindicazioni. La prima è che non potevano prendere uno stipendio superiore ai 500 euro al mese, perché altrimenti sarebbero stati espulsi dal Cas. Ma come fa una persona a vivere con 500 euro al mese? Così i ragazzi rischiano di essere sottopagati o lavorare in nero. Inoltre, le procedure di riconoscimento dello status di migrante sono lunghissime: capita che qualcuno si crei relazioni e si trovi un lavoro per poi essere espulso dopo sei mesi, un anno o due anni. Questa incertezza non può che fiaccare qualsiasi processo di integrazione».
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