Economia / Bergamo Città
Mercoledì 08 Marzo 2023
«Lavoro poco flessibile: sei donne su dieci lasciano»
L’intervista. Dato bergamasco, le difficoltà per l’organizzazione delle aziende. Il welfare territoriale invece funziona. Lomazzi: «Rivedere ruoli e congedi».
In Bergamasca sei donne su dieci si dimettono per problemi di conciliazione dei tempi, dovuti all’organizzazione del lavoro. È uno dei dati che fotografa la situazione dell’occupazione femminile. Per Vera Lomazzi, ricercatrice in Sociologia generale del Dipartimento di Scienze aziendali dell’Università di Bergamo, il superamento della disparità di genere chiama in causa i ruoli della donna-madre e dell’uomo-padre, che non vanno «cristallizzati»: «Serve intervenire sulla struttura della società e creare opportunità perché la donna che vuole lavorare lo possa fare e l’uomo che vuole dedicarsi alla cura dei figli lo possa fare».
Qual è la condizione delle donne lavoratrici oggi?
«Storicamente il mercato del lavoro presenta elementi di disuguaglianza e svantaggio per le donne che vogliono lavorare. C’è una segregazione orizzontale, con settori che vedono una prevalenza di occupazione femminile, come la cura e l’educazione, e altri dove le donne fanno più fatica a entrare, come le discipline Stem (matematica, fisica, ingegneria). E poi c’è una segregazione verticale, che riguarda i livelli di carriera : per le donne resta molto più difficile arrivare ai livelli superiori nelle gerarchie, anche nei settori molto femminilizzati».
Nonostante abbiano spesso una formazione più alta, le donne quindi continuano ad avere salari più bassi e posizioni meno qualificate?
«Questi fenomeni stanno migliorando, ma ancora troppo lentamente. La disparità salariale resta molto alta. In Italia è del 5% contro un media europea del 12% ma da noi si tiene conto della paga oraria. In realtà molte donne non lavorano e quelle che lavorano hanno un’occupazione precaria. In termini pensionistici, quindi, si creano altre disuguaglianze. Per quanto riguarda le posizioni apicali, quando si lavora sulle strutture i cambiamenti sono più duraturi. Pensiamo alle “quote di genere”: da molti sono considerate uno strumento antipatico, ma sono necessarie per scardinare gli stereotipi e dare una spinta alle strutture per creare una pratica. Se in un Cda di un’azienda siedono 2 donne su 5 può aiutare una donna a dire “posso arrivarci anche io”».
La conciliazione dei tempi è sempre l’ostacolo più grande?
«È qui che bisogna intervenire. Significa lavorare sulla dimensione culturale, sugli stereotipi per cui l’uomo lavora e porta a casa il reddito principale e la donna è l’unica dedita alla casa e alla cura dei figli. È un modello che funziona poco e che limita le opportunità delle famiglie, anche in situazioni di crisi. Se l’uomo è l’unico che lavora e l’azienda chiude, la famiglia è a rischio povertà».
Quindi come si può intervenire?
«Con pratiche e politiche di conciliazione mirate non solo alle donne. Il congedo di genitorialità, ad esempio, deve essere rivolto sia ai padri sia alle madri, in modo tale che le famiglie siano libere di scegliere, con le stesse opportunità offerte a entrambi i genitori».
Con la pandemia si sono sperimentate nuove forme di flessibilità, tipo il lavoro da casa. Funziona?
«La pandemia da un lato è stato uno “stress test”, amplificando disuguaglianze che già c’erano: i settori più esposti e più colpiti sono stati quelli più femminilizzati. Dall’altro ha esteso l’uso del lavoro da casa, che da una parte è apparsa la panacea della conciliazione e dall’altra è stato un boomerang. Gli studi europei durante la pandemia hanno dimostrato che la madre lavoratrice viene interrotta il triplo dei padri durante il lavoro a casa, e questo nel lungo periodo può creare una perdita di resa che porta anche alla segregazione verticale. Il risvolto positivo è che uomini e donne sono stati messi sullo stesso piano. Qui si gioca il futuro: come si stanno riorganizzando le aziende? Quanto è legittimato l’uomo a chiedere forme di flessibilità?».
Anche le dimissioni volontarie sono in crescita. Quali sono i motivi?
«Le motivazioni sono legate a due leve: all’azienda che non permette un’organizzazione flessibile o al territorio che non offre abbastanza servizi. In Bergamasca, dove il welfare territoriale funziona, sei donne su dieci si dimettono per problemi di conciliazione dovuti all’organizzazione del lavoro. Al contrario, a livello nazionale, il motivo principale delle dimissioni è la mancanza di servizi».
L’aver sfondato il «tetto di cristallo» in politica, con Giorgia Meloni premier ed Elly Schlein leader dell’opposizione, può lanciare un messaggio anche al mondo del lavoro?
«Avere due figure femminili carismatiche è positivo dal punto di vista del “modello” : la bambina che guarda può immaginare un percorso possibile, e l’uomo può rendersi conto che è possibile essere guidati da una donna. Quello che succederà per le altre donne, invece, dipenderà dal tipo di leadership che verrà messo in campo: se sapranno lavorare in squadra con altre donne per le donne ci sarà un cambiamento vero. Se finirà per essere un “one man show” funzionerà poco sulla lunga durata».
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