L’asso nella manica per le imprese: un lavoro agile a misura di Gen Z

DELTA INDEX. La ricerca del Politecnico indica che il 73% dei lavoratori non vuole rinunciare allo smart working. Crespi, direttrice dell’Osservatorio: «Non è un benefit, ma un equilibrio fra autonomia e responsabilità condivisa».

«Rientra in ufficio oppure trovati un nuovo lavoro!». L’aut aut di Amazon che ha annunciato un giro di vite sullo smart working è rimbalzato ovunque scuotendo le certezze di chi aveva eletto la propria abitazione a luogo di lavoro ideale.

Scagli la prima pietra chi non farebbe fatica oggi a tornare al periodo pre Covid, quando il lavoro da remoto era una concessione per pochissimi: 570mila lavoratori in tutta Italia, che quest’anno si sono assestati sui 3.550.000 e ne sono previsti 3.750.000 nel 2025, dopo la «forzatura» del 2020 con 6.590.000. Certo, lo smart working non è garantito per legge, anche se nel Regno Unito ci stanno ragionando.

Il 73% dei lavoratori è contro l’eliminazione dello smart working

La domanda è dunque: diritto, opportunità o benefit? Un quesito che coinvolge specialmente la Generazione Z, propensa a privilegiare l’equilibrio tra vita privata e professionale e quindi in cerca di flessibilità. L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha rilevato che il 73% degli smart worker non rinuncerebbe facilmente a questa formula. Ma come possono le aziende che puntano ad attrarre i giovani a rendere lo smart working una leva efficace? Quali sono i vantaggi e le criticità da considerare per far emergere la propria attrattività agli occhi della Gen Z? Il nostro Osservatorio Delta Index, dedicato in modo specifico all’attrattività delle aziende rispetto agli under 27, si è confrontato su questi temi con Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, per comprendere come le aziende possano utilizzare al meglio il lavoro agile per attrarre e trattenere talenti della Generazione Z.

C’è senz’altro un approccio generazionale allo smart working. Perché piace tanto ai giovani e un po’ meno alle aziende?

«Lo smart working risponde alla richiesta di flessibilità che la Generazione Z esprime con forza. Per i giovani, il lavoro agile è una modalità molto apprezzata perché consente loro di scegliere dove e quando lavorare, riducendo trasferimenti e aumentando il comfort. Tuttavia, le aziende devono bilanciare questa flessibilità con la presenza, specialmente nei primi mesi, per permettere ai giovani di integrarsi nella cultura aziendale e costruire relazioni. I giovani cercano aziende che offrano flessibilità, ma non a scapito della socialità e dell’apprendimento sul campo».

Quali differenze di esigenze emergono nelle varie fasce d’età?

«I lavoratori più senior sfruttano lo smart working per conciliare esigenze familiari, mentre la Gen Z è attratta dalla possibilità di evitare trasferimenti giornalieri. Ma in alcuni casi succede il contrario, cioè i giovani preferiscono addirittura andare in ufficio per costruire rapporti con i colleghi e avere un ambiente più confortevole rispetto a casa. Le aziende che vogliono attrarre giovani devono quindi offrire spazi di lavoro accoglienti e flessibili, con la possibilità di scegliere dove lavorare».

Lo smart working può davvero rafforzare il senso di appartenenza dei giovani all’azienda?

«Se strutturato correttamente, sì. Lo smart working è molto apprezzato dai giovani perché rappresenta una forma di fiducia da parte dell’azienda, basata sui risultati anziché sulle ore passate in ufficio. Tuttavia, un lavoro completamente da remoto può rischiare di indebolire il senso di appartenenza. È importante mantenere un equilibrio tra giornate in presenza e giornate di lavoro agile, specialmente per i nuovi assunti. Le aziende devono trasmettere ai giovani che lo smart working è un’opportunità per essere autonomi, ma anche una responsabilità verso gli obiettivi del team».

In fase di selezione, può essere un fattore decisivo per attrarre candidati Gen Z?

«Assolutamente. I giovani cercano informazioni sulle modalità di lavoro già dai primi contatti con l’azienda. La flessibilità è tra le prime domande che un candidato della Gen Z pone, perché percepisce lo smart working non solo come un benefit, ma come un modo di lavorare allineato con i propri valori. È però fondamentale non presentarlo come un “benefit” o un diritto acquisito, bensì come un’opportunità di crescita e responsabilizzazione, in cui la flessibilità è accompagnata dalla responsabilità di raggiungere obiettivi concreti».

Qual è il ruolo della formazione? La sua ricerca ha evidenziato l’uso di strumenti digitali a distanza specifici per il training?

«La formazione resta fondamentale, soprattutto per i nuovi ingressi, e spesso richiede la presenza fisica per favorire l’apprendimento della cultura aziendale e la socializzazione. Tuttavia, la digitalizzazione rende possibile una parte di formazione a distanza, che può integrare lo smart working come modalità formativa. Alcune aziende usano le giornate di formazione per permettere ai dipendenti di fare smart working, senza trascurare i momenti di affiancamento in presenza, essenziali per una vera integrazione aziendale».

I giovani dicono che vogliono anche vivere e non solo lavorare... Quanto incide lo smart working su questo aspetto esistenziale?

«Sicuramente sì: la flessibilità ha migliorato l’equilibrio vita-lavoro, consentendo ai giovani di organizzarsi meglio. Tuttavia, va gestito il rischio di sovraccarico, dato che la mancanza di un confine fisso può portare a orari prolungati. È essenziale che le aziende adottino misure per evitare il sovraccarico, sensibilizzando i dipendenti sull’importanza di rispettare i propri tempi di recupero».

Come si può formare la leadership intermedia nelle aziende affinché supporti il desiderio dell’«ufficio a casa» per la Generazione Z?

«Per molti manager intermedi lo smart working rappresenta una sfida perché cambia il modo di gestire il team. Mentre i dirigenti sono abituati a lavorare per obiettivi, i manager intermedi possono trovarsi in difficoltà senza il controllo diretto. Le aziende che vogliono attrarre e trattenere giovani talenti devono quindi investire nella formazione della leadership intermedia, aiutandoli a guidare per risultati e a valorizzare l’autonomia dei collaboratori».

Quale consiglio darebbe a un giovane che si affaccia al mondo del lavoro per non scontrarsi con l’azienda sullo smart working?

«Il mio consiglio per la Generazione Z è di vivere lo smart working come un’opportunità per mettersi alla prova, sviluppando fin da subito autonomia e capacità di gestione degli obiettivi. È essenziale però non dimenticare l’importanza della collaborazione e delle relazioni di team: lo smart working non deve essere interpretato in modo rigido, ma va vissuto come un equilibrio tra autonomia e responsabilità condivisa. Così facendo, il lavoro agile può diventare uno strumento di crescita sia per i giovani sia per l’azienda».

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