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Economia / Bergamo Città
Lunedì 03 Marzo 2025
In 23mila al lavoro dopo la pensione: +37% in dieci anni
IL FENOMENO . Assegni più bassi, ma anche mancanza di ricambio generazionale all’origine della scelta. I sindacati: «Difficile sostituire alcune professionalità».
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Per necessità o per scelta, la sostanza è la medesima: sempre più persone continuano a lavorare anche dopo la pensione. Magari solo per alcuni mesi, per consentire un graduale passaggio di consegne con l’«erede» della propria mansione, oppure anche per anni, specie se c’è un negozio o un’attività economica da portare avanti e il ricambio non è garantito. Sono oltre 23mila i bergamaschi che hanno una posizione lavorativa nonostante abbiano già raggiunto il traguardo della quiescenza, secondo gli ultimi dati dell’Inps riferiti alla fine del 2023. E in circa un decennio, dal 2014 al 2023, sono aumentati del 36,9%, passando da 16.965 a 23.232: oltre 6mila bergamaschi in più hanno maturato questa decisione.
È la conferma statistica di una tendenza che si osserva sempre più. Per diversi motivi: perché in proporzione al costo della vita le pensioni sono più basse di un tempo, ma anche perché l’inverno demografico ha creato una carenza di manodopera e il ricambio generazionale non sempre è garantito. Così, le esigenze dei «pensionandi» e delle aziende finiscono spesso per collimare, prolungando la permanenza in ufficio, in fabbrica, in negozio.
I dati
Qualche flash sui singoli settori: molti sono autonomi, come i 5.358 artigiani (+26,9% tra 2014 e 2023) o i 3.641 commercianti (+19,9%), ma il fenomeno ha visto una brusca accelerazione anche nel privato, con 7.543 dipendenti già pensionati (+129,1% dal 2014), e pure nel pubblico, dove l’Inps censisce 1.083 posizioni di questo tipo (+95,1% dal 2014), e poi via via con target più residuali.
I tanti fattori
«È sentore diffuso che il fenomeno sia in crescita – premette Francesco Corna, segretario generale della Cisl Bergamo –. Siamo a conoscenza di un numero in costante aumento di persone alle quali le aziende chiedono di continuare a prestare servizio. In parte succede perché è difficile trovare alcune professionalità e perché non ci sono ricambi, ma questo può indicare anche che il ricambio non viene preparato con la giusta lungimiranza: serve un affiancamento, un tutoraggio aziendale che faccia crescere le nuove figure. È un discorso che parte da lontano, dall’istruzione e dal raccordo col mercato del lavoro».
«Ma se si resta in azienda anche in tarda età, «è indispensabile agire su una nuova organizzazione del lavoro – rimarca il sindacalista della Cisl - con la riduzione dei carichi e un’attenzione al benessere organizzativo»
Ma c’è anche una questione più legata al mutamento della società: «La tendenza a far figli più tardi, o le separazioni e le nuove unioni che portano ad altri figli, fanno sì che ci siano esigenze economiche che si protraggono più a lungo – riflette Corna –, come le spese per l’istruzione, e così i lavoratori a volte hanno la necessità di continuare a lavorare per sostenere i figli, che spesso hanno impieghi precari». Ma se si resta in azienda anche in tarda età, «è indispensabile agire su una nuova organizzazione del lavoro – rimarca il sindacalista della Cisl - con la riduzione dei carichi e un’attenzione al benessere organizzativo».
«L’interesse reciproco»
«Ci si identifica molto nel proprio lavoro e si continua a farlo anche dopo la pensione, perché magari la stanchezza fisica non è la stessa di altre mansioni»
Necessità del lavoratore, necessità dell’azienda: è qui che s’incrociano i fattori. «Vedo soprattutto due chiavi di lettura – premette Marco Toscano, segretario generale della Cgil Bergamo –. L’inflazione e l’erosione del potere d’acquisto, così come la mancata indicizzazione piena delle pensioni, in alcuni casi portano il lavoratore a decidere di continuare a restare in azienda se vi è la possibilità. Poi c’è l’interesse dell’impresa: Se per alcune competenze specifiche, dall’operaio specializzato al quadro, l’azienda non pianifica per tempo un affiancamento a chi è in uscita, il datore di lavoro tende a chiedere di restare ancora in azienda, perché si è portatori di una competenza non immediatamente sostituibile. C’è poi una terza fascia, quella delle professioni intellettuali e consulentizie: ci si identifica molto nel proprio lavoro e si continua a farlo anche dopo la pensione, perché magari la stanchezza fisica non è la stessa di altre mansioni».
E le nuove generazioni?
Ma la permanenza dei pensionati al lavoro non rischia di essere un blocco per le nuove generazioni? «Quando come Cgil, Cisl e Uil abbiamo firmato con Confindustria le linee guida sulla contrattazione – spiega Toscano –, abbiamo inserito proprio il tema degli affiancamenti, ragionando sui percorsi per il trasferimento di competenze tra lavoratori esperti e lavoratori giovani, per garantire il passaggio di consegne ed evitare che invece si crei un tappo che non faccia entra i giovani».
Per Pasquale Papaianni, coordinatore territoriale della Uil Bergamo, serve «una cinghia di trasmissione che garantisca il passaggio generazionale, con azioni inclusive per le nuove leve e per il valore aggiunto rappresentato dall’innovazione giovanile, garantendo proprio ai giovani le opportunità di costruirsi un futuro e una famiglia. C’è una tendenza nazionale che vede allungarsi la permanenza al lavoro, anche per necessità, ma serve ragionare sul futuro».
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