«I giovani? Consapevoli, non naif. Imprese, assumete i non allineati»

DELTA INDEX. Virginia Stagni, classe 1993, ai vertici di Adecco, racconta la sua visione sul futuro del lavoro per i giovani. «Non basta lo stage, chi seleziona i ragazzi deve essere trasparente sul percorso di crescita».

Con la Generazione Z ormai rappresentata nel 20% delle assunzioni in Italia, le aziende devono fare i conti con un cambiamento radicale nelle aspettative e nelle priorità lavorative. Se da un lato il 61% dei giovani continua a considerare lo stipendio il principale fattore di scelta di un lavoro, dall’altro emergono nuove esigenze come il bilanciamento tra vita privata e professionale e la coerenza tra il proprio percorso di studi e il lavoro offerto (32%). Più della metà della Gen Z - secondo una ricerca Adecco - si dichiara disposta ad accettare uno stipendio più basso per un lavoro che sia in linea con i propri interessi e che offra opportunità di crescita. Di questi temi abbiamo parlato con una delle più giovani dirigenti d’Italia, Virginia Stagni. Classe 1993, è Chief marketing officer & Head of Comms di The Adecco Group Italy e già Head of business development e talent director al Financial Times.

Lei è una delle più giovani manager italiane che si occupa delle sfide intergenerazionali. Come dovrebbero affrontare le aziende italiane i giovani della Generazione Z?

«La discrasia principale tra giovani e aziende è la trasparenza sui percorsi di crescita. La differenza principale rispetto ai Millennials è proprio questa. Quando i giovani entrano in azienda, vogliono capire fin da subito dove potrebbero arrivare con l’impegno e l’esperienza. Vogliono una visione chiara, fin dal primo giorno, delle opportunità che l’azienda può offrire loro. In passato, l’idea di carriera si basava su una crescita lenta e graduale. Oggi, invece, non accettano posizioni che non offrano una prospettiva chiara».

Non funziona più il metodo applicato dalle aziende nell’avvicinare i giovani al mondo del lavoro?

«Non è in linea con questa nuova generazione. Faccio un esempio: quando io giovane entro in azienda, benissimo che inizio con uno stage ma fammi capire dove potrei arrivare insieme a te se mi impegno. Io Virginia, invece, sono una Millenial ed è interessante il confronto con la Gen Z perché è già cambiato tanto. Quando io ho iniziato a lavorare ho detto: fatemi fare tutto e poi capiamo insieme. Oggi invece i giovani vogliono conoscere subito il percorso e dimostrano una certa maturità, vogliono capire dove sono capitati e come possono esprimersi al meglio».

Oltre alla trasparenza, quali altri aspetti sono determinanti per questa generazione?

«Senza dubbio l’equilibrio tra vita privata e lavoro è una priorità. Le ricerche mostrano che la flessibilità oraria è fondamentale per il 30% dei giovani e il bilanciamento vita-lavoro è considerato importante dal 32%. Tuttavia, non bisogna commettere l’errore di considerarli pigri o poco propensi all’impegno. È semplicemente una maggiore consapevolezza dei rischi legati allo stress e al burnout. Basti pensare che l’87% degli italiani ha sperimentato episodi di burnout negli ultimi 12 mesi».

Come si traduce tutto questo nel rapporto tra azienda e lavoratore? Una grande agenzia di selezione come si muove in questo contesto?

«Adecco ha il compito di mediare tra le esigenze delle aziende e quelle dei giovani. Quando cerchiamo candidati, non si tratta solo di trovare competenze. È essenziale comprendere se esiste un match culturale tra le parti. Questo è ancora più cruciale nelle piccole e medie imprese italiane, che rappresentano l’80% del nostro business. Il lavoro che facciamo con il team è posizionarci sulla Gen Z e supportare le aziende a comprendere e integrare questa generazione. Ad esempio, stiamo sviluppando nuove tattiche di marketing proprio per avvicinare questa fascia d’età a contesti tradizionalmente distanti, come il settore B2B».

Spesso si parla della Gen Z come di una generazione irriverente. Cosa ne pensa?

«La definirei piuttosto “consapevole”. Hanno le idee chiare su quello che vogliono e non si accontentano di entrare in azienda senza sapere come potranno crescere. Non sono “fighetti” o “naif” come alcuni li definiscono. Quando io stessa mi interfaccio con i giovani, vedo una grande voglia di fare, ma anche di sapere esattamente dove quel fare li porterà. Questo, paradossalmente, dimostra una maturità che le generazioni precedenti non avevano. Pensiamo a noi: ci adattavamo, facevamo tutto quello che ci veniva richiesto, ma senza porre domande. I giovani di oggi, invece, chiedono, fanno tante domande, vogliono sapere. E questo è un punto di forza».

C’è una forte attenzione al tema dello smart working. Ora però alcuni big mondiali iniziano a cancellarlo. I ragazzi lo chiedono. Qual è la sua opinione: toglierlo o lasciarlo?

«Molti ragazzi chiedono subito lo smart working totale, ma è una richiesta ridicola: non capiscono che, se non conosci l’ambiente di lavoro, rischi di non comprendere il contesto aziendale. Lo smart working è un diritto, ma va inserito in un percorso. All’inizio è fondamentale conoscere le persone e l’ambiente di lavoro. Solo così si possono costruire relazioni e comprendere realmente la cultura aziendale. Questo non significa che non sia possibile lavorare da remoto, ma che deve avvenire in modo graduale e consapevole».

Le aziende fanno fatica a interpretare la Gen Z. Quali azioni concrete dovrebbero attuare per essere più attrattive?

«Credo che la cosa più importante sia instaurare un rapporto autentico con il territorio. Le aziende devono pensarsi come centri di comunità e collaborare attivamente con scuole e associazioni locali. Creare un triangolo tra aziende, scuole e comunità è fondamentale. Un altro aspetto è la scelta dei profili: non bisogna avere paura di assumere persone con background diversi e con approcci differenti. Includere persone con prospettive diverse, anche se non perfettamente allineate con la cultura aziendale, è il modo migliore per mantenere l’innovazione e attrarre nuovi talenti».

Ribaltiamo per una volta la prospettiva: lei, giovane tra i giovani, quale consiglio darebbe agli under 27 che si affacciano al mondo del lavoro?

«Pensate solo una cosa: se avete ottenuto quel posto, è perché ve lo meritate. Smettete di pensare di non essere abbastanza, non abbiate paura di far valere le vostre idee. Quando io stessa mi scontro con persone più tradizionali in azienda, ricordo loro che, se sono qui, è per un motivo: per portare una visione nuova. Non lasciate che la sindrome dell’impostore vi faccia dubitare di voi stessi. Se siete giovani e avete una voce diversa, usatela».

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